lunedì 8 agosto 2011

“Errori” in traduzione

Intervento di Harry Aveling in occasione del terzo seminario su “The Art of Translation”, svoltosi a Londra nei giorni 19-20 settembre 2002. L'articolo originale si trova qui.

Tradotto in italiano da me.

I traduttori vengono regolarmente rimproverati da vari critici per i loro "errori" apparentemente infiniti. Tutti quelli tra noi che esercitano come traduttori lo sanno bene. Lavoriamo secoli per tradurre un testo, con sensibilità e premura, solo per sentirci dire che "manca una virgola a pagina 45", "questo uccello è un piccione e non una gazza", e "il congiuntivo, che nell'originale è una caratteristica particolare dello stile di questo autore, manca nella traduzione". Errori, errori, errori...
Nello scegliere per il mio intervento questo particolare argomento tra il ventaglio di quelli offerti ai partecipanti di questo terzo seminario del "Translations and Translation Theories East and West Project", ho l'impressione che sia tra quelli su cui i miei critici, almeno, mi considerino particolarmente qualificato. Nel mio intervento desidero valutare se abbia ancora senso considerare gli "errori" come un mancato raggiungimento di "equivalenza, adeguatezza, accuratezza, ecc.", specialmente in questi giorni postmoderni in cui si è solidamente affermato il concetto di letture multiple. Una parte della mia argomentazione farà anche distinzione tra quelli che potrebbero essere inizialmente considerati "errori muti" (errori stupidi) ed "errori intenzionali", gli ultimi verificantisi quando un traduttore sceglie chiaramente di ricreare il testo in un modo che sembra deviare dal significato letterale superficiale del testo di partenza. In terzo luogo, sosterrò che nella valutazione della traduzione non occorra insistere su "Questo è sbagliato", ma piuttosto chiedersi "Perché il traduttore ha optato per questa particolare scelta traduttiva? Cos'è che stava cercando di far trasparire dal testo originale nella sua ri-rappresentazione?"
Inoltre, spero che nella discussione che seguirà il mio intervento altri partecipanti presentino propri esempi di come abbiano giustificato alcuni dei propri "errori intenzionali".
Prima che io inizi davvero questo intervento, o forse quale modo per iniziarlo, vorrei condividere con voi alcuni estratti da un articolo scritto da Howard Goldblatt e pubblicato sul The Washington Post nell'aprile di quest'anno[1]. L'articolo si apre con una "testimonianza sulla professione" di Isaac Bashevis Singer: "Non c'è una tal cosa quale un buon traduttore. I migliori traduttori commettono gli errori peggiori. Non importa quanto li ami tutti, i traduttori devono essere tenuti d'occhio da vicino". Goldblatt fa immediatamente seguire a questo una citazione volgare tratta da Milan Kundera: "Voi traduttori, non sodomizzateci!". E per dare enfasi vi aggiunge poi l'etichetta italiana: "Traduttore-traditore". L'articolo stesso era intitolato: "Traduttore: lo scrittore che tutti amano odiare. Dove trova il coraggio di fare questo mestiere?". Questo riflette le due domande che Goldblatt pone dopo queste due veloci provocazioni: "Chi sono queste persone che tutti amano odiare e, se sono così pessime, come possono andare avanti con ciò che fanno?" (o, come Goldblatt commenta più avanti: "Si tratta di uno splendido lavoro, o cosa?"). La risposta alla prima domanda è, ovviamente: "Io sono uno di loro. Sono un traduttore".
A metà dell'articolo, Goldblatt parla di alcune delle possibili ragioni per l'"inadeguatezza" della traduzione. Queste includono la natura fissa del testo originale e la natura mutevole della nostra lingua, le complessità della ricerca interculturale così come la capacità di alcune lingue di sfuggire a una traduzione adeguata perché "le parole non sono semplicemente disponibili o efficienti" (Goldblatt cita anche James Thurber che, quando gli venne detto da un lettore francese che le sue storie si leggevano persino meglio in francese, rispose: "Sì, tendo a perdere qualcosa nell'originale").
L'articolo termina con la "risposta breve e molto personale" data spontaneamente da Goldblatt alla seconda domanda, "Dove trova il coraggio di fare questo mestiere?". La sua risposta è:

Perché amo farlo. Amo leggere il cinese; amo scrivere in inglese. Amo la sfida, l'ambiguità, l'incertezza dell'impresa. Amo la tensione tra la creatività e la fedeltà, persino gli inevitabili compromessi. E, di quando in quando, trovo un lavoro così eccitante da essere posseduto dall'urgenza di trasporlo in inglese. In altre parole, traduco per restare vivo. La soddisfazione di sapere che ho servito fedelmente due rappresentanze linguistiche continua a farmi trasformare con gioia una prosa cinese buona, scadente o indifferente in libri inglesi leggibili, accessibili e - sì - persino commerciabili.

Queste sono, e sono sicuro che ci troveremo tutti d'accordo, splendide ragioni per l'atto del tradurre. Ciononostante, non si sa se Goldblatt abbia superato le iniziali offese sull'"erroneità" della traduzione, o se le abbia semplicemente foderate con la spiegazione dell'"inadeguatezza" della traduzione quale conseguenza degli "inevitabili compromessi" che occorrono alla "tensione tra la creatività e la fedeltà" nel "fedele" servizio reso a due rappresentanze linguistiche. Di quando in quando i traduttori sono sufficientemente pronti nella difesa dei propri errori dai crudeli assalti dei nemici, a volte con notevole energia. Nel suo libro "The Forked Tongue" (Mouton, L'Aia 1971), Burton Raffel annota prima con dispiacere: "Quanta rabbia sembra che io susciti in alcune persone" (pag. 147). Tuttavia altrove, come in una lettera destinata a un commentatore del suo "Poems from the Old English", insiste fermamente: "(1) di non aver in nessun caso travisato lo spirito di alcun poema, e (2) che la sua percentuale di errori è infinitesimamente minore rispetto a quanto il commentatore (e, implicitamente, il lettore) suggerisca" (pag. 144).
La difesa di Raffel è costruita su una divisione simile alla distinzione di Goldblatt tra la "creatività" e la "fedeltà". Da una parte dello spartiacque vi sono "i poeti", tra i quali Raffel include i traduttori e i lettori di poesia. Dall'altra, vi sono "filologi, storici, archeologi, e altre persone fondamentalmente non legate al mondo letterario" (pag. 62). Il traduttore non si occupa di filologia ma di letteratura: "per ricreare, per colui che è privo della capacità linguistica di svolgere il lavoro da sé, un'esperienza poetica pre-esistente" (pag. 11) - o, ulteriormente, "per interessare ed istruire, soddisfare e informare il lettore moderno che non conosce una parola della lingua originale" (pag. 150).
"Gli accademici hanno dei diritti, esattamente come le altre persone", ammette Raffel in una lettera precedente nel libro. "Ma dopotutto, agli accademici che studiano inglese antico non occorre una traduzione di Beowulf - non a loro. Preferiscono l'originale - e buon per loro... Quando gli accademici utilizzano una traduzione lo fanno per le altre persone, per coloro che non leggono l'inglese antico. Perché? Per insegnar loro il verso formulare orale? Non penso. L'idea è di esporli a una significativa dose di bellezza così come il pensiero dell'inglese antico la concepiva ed esprimeva, per mostrar loro in modo concreto che cosa il poeta inglese antico poteva fare e faceva" (pag. 31).
Gran parte del The forked tongue è una discussione con "gli accademici", orientati verso la lingua originale e non verso la lingua moderna della traduzione. "Questo", afferma Raffel, "preserva ciò che è più semplice preservare e perde ciò che è più difficile da preservare (vale a dire, mantiene la teoria accademica, ma intorbida e distrugge la poesia)" (pag. 51).
Nel saggio "On Translating Beowulf", Raffel espone ulteriormente, per filo e per segno, queste differenze. Il fine del poeta-traduttore è soggettivo: padroneggia l'originale al fine di lasciarlo ai posteri, di presentare versi che riflettano l'originale e che nella lingua moderna rappresentino tuttavia buona poesia; il poeta non può "accondiscendere" all'originale - lo rispetta come un poema e non come fonte per qualcos'altro; il poeta traduce ciò che ama, ignorando ciò che non ama (per questo non può tradurlo bene o persino decentemente). L'accademico, invece, è disciplinato da "lacune nella conoscenza, o dalla necessità che questo e quest'altro venga fatto" (pag. 67). L'accademico lavora dall'esterno all'interno, spargendo quanta più luce possibile, da qualsiasi fonte ragionevole. Il poeta lavora dall'interno all'esterno dal (proprio) interno all'esterno, tentando di estraniarsi insieme al proprio lavoro (pag. 68).
Gli "errori" di Raffel sono i difetti svelati dai critici accademici, ma rappresentano anche l'inevitabile risultato di un'esigenza "che si ha come traduttore e come poeta di fare - di scoprire realmente - un'incarnazione inglesizzata che io posso poi possedere senza diminuzione" (pagg. 160-1). Come Goldblatt, Raffel ridefinisce gli errori rendendoli la conseguenza apparentemente necessaria della poesia in traduzione, ma neanche lui può cavarsela completamente in questo senso (ve ne sono semplicemente molti meno di quanti ne suggeriscano i critici).
Sorprendentemente, la parola "errori" non è tra quelle che entrano spesso nella teorizzazione contemporanea della traduzione - al di fuori delle aule di apprendimento della lingua, almeno. Infatti, sono molto pochi i libri tra i 20 circa che parlano di traduzione nella libreria che ho a casa dove nell'indice compaiano voci su "errori" o "sbagli". E ciò include l'indice della monumentale antologia di Laurence Venuti, The translation Studies Reader" (Routledge, Londra 2000), anche se quando si passa alla parola "equivalenza" si è incoraggiati a "vedere anche adeguatezza, accuratezza, corrispondenza, fedeltà, identità".
Forse conformemente a questa determinazione da parte dei traduttori stessi di non vedere gli "errori" come un significativo strumento teorico, anche la parola non riesce ad apparire nel glossario nel "Translating as a Purposeful Activity: Funcionalist Approaches Explained" (St. Jerome, Manchester, 1997) di Christiane Nord, anche se quest'ultima dedica una sezione del suo libro a "Translation Errors and Translation Evaluation" (pagg. 73-79).
Lo scopo della Nord, così come suggerisce il sottotitolo del libro, è quello di mostrare una gamma di approcci "funzionalisti" alla traduzione. La sua tesi è fondata su due premesse iniziali. La prima è che la traduzione è un tipo particolare di "azione" umana o, più esattamente parlando, "interazione" tra due o più agenti, che è "anzitutto intesa a cambiare uno stato di cose esistente (trascurabilmente, l'incapacità di certe persone di comunicare le une con le altre)" (pag. 19), implicando un testo di partenza. In secondo luogo, il testo di arrivo è "funzionale", poiché si collega ad "aspettative, esigenze, bisogni, conoscenza pregressa e condizioni situazionali" (pag. 28) del ricevente per il quale è inteso (pag. 21). Come insiste la Nord: "il principale principio che determina qualsiasi processo di traduzione è lo scopo (Skopos) dell'intera azione del tradurre", aggiungendo che: "questo concorda con l'intenzionalità che è parte della definizione stessa di qualsiasi azione" (pag. 27). Per sottolineare la sua prospettiva, cita il commento di Hans Vermeer (pag. 29) per il quale:

Ciascun testo viene prodotto per uno scopo dato e dovrebbe servire tale scopo. La regola dello Skopos in questo modo si legge come segue: traduti/interpreta/parla/scrivi in un modo che permetta al tuo testo/alla tua traduzione di servire nella situazione in cui viene usato/a e con le persone che vogliono usarlo/a e precisamente nel modo in cui queste vogliono che si presti [2].

O, in termini più pittoreschi: "il fine giustifica i mezzi" (pag. 29)[3].
Come ci ha ricordato Foucault, molte tesi assumono più senso quando sappiamo (implicitamente o esplicitamente) contro chi sono rivolte. Il nemico della Nord è "il tradizionale concetto di equivalenza come caratteristica costitutiva della traduzione" (pag. 35). Accantona l'"equivalenza" come "un concetto statico, volto al risultato e che descrive una relazione di 'valore comunicativo eguale' tra due testi o, in grado inferiore, tra parole, frasi, proposizioni, strutture sintattiche e così via" (pagg. 35-6).
Le supposizioni della teoria dell'equivalenza sono le seguenti (pagg. 84-91):
Il ricevente del testo di arrivo considera l'interpretazione del traduttore essere l'intenzione del mittente. Ciò richiede che: l'interpretazione del traduttore debba essere identica all'intenzione del mittente.
La funzione del testo tradotto è basata sull'interpretazione di un'interpretazione dell'intenzione del mittente e di una conoscenza del retroterra culturale e dell'aspettativa dei riceventi del testo di arrivo. Ciò richiede che: il traduttore debba verbalizzare l'intenzione del mittente in modo tale che il testo di arrivo sia in grado di conseguire nella cultura di arrivo la stessa funzione che il testo di partenza ha svolto nella cultura di partenza.
In entrambe le situazioni di partenza e di arrivo, la comprensione del mondo racchiuso nel testo dipende dal retroterra culturale e dalla conoscenza del mondo dei riceventi. Ciò richiede che: il ricevente del testo tradotto debba comprendere il mondo racchiuso nel testo della traduzione nello stesso modo in cui i riceventi del testo originale hanno compreso il mondo racchiuso nel testo di quest’ultimo.
Gli elementi del codice della letteratura di arrivo possono realizzare sui propri riceventi lo stesso effetto, così come lo hanno realizzato gli elementi della letteratura di partenza sui propri solo se hanno la medesima relazione con la tradizione letteraria. Ciò richiede che: l'effetto che la traduzione ha sui propri lettori debba essere lo stesso che il testo di partenza ha o ha avuto sui propri lettori.
In certa misura, il libro della Nord si sviluppa a partire dalla Teoria di Ricezione (Rezeptionasthetik) (pag. 31), una teoria critica "postmoderna" in cui viene enfatizzato il concetto relativo e non giudicante di letture multiple e diverse. Questa teoria insiste sul fatto che (pag. 31):

Il significato o la funzione di un testo non è qualcosa di inerente ai segni linguistici; non può essere semplicemente estratto da chiunque conosca il codice. Il testo è reso significativo dal proprio ricevente e per il proprio ricevente. Riceventi diversi (o persino lo stesso ricevente in momenti diversi) trovano significati diversi nello stesso materiale linguistico offerto dal testo. Potremmo addirittura affermare che un 'testo' racchiude tanti testi quanti sono i riceventi.

Accettando la proposizione per cui il traduttore è "solo uno dei molti possibili lettori" e che "il traduttore ha una comprensione individuale del testo di partenza" (pag. 85), la Nord è portata a rifiutare tutte le supposizioni sull'"equivalenza" e i conseguenti requisiti che sono stati elencati solo come tradizionali procedure operative per i traduttori. Dal punto di vista funzionale:

Il testo di partenza non è più il primo e fondamentale criterio per le decisioni del traduttore; è solo una delle varie fonti di informazione usate dal traduttore.

Come qualsiasi testo, un testo usato come fonte in un'azione traduttiva può essere visto come un''offerta di informazioni' (Reiss e Vermeer 1984:72 ff). Posto di fronte a questa offerta, qualsiasi ricevente (tra cui il traduttore) sceglie gli elementi che considera interessanti, utili o adeguati agli scopi desiderati. In traduzione, gli elementi informativi scelti vengono successivamente trasferiti nella cultura di arrivo usando la presentazione che il traduttore ritiene appropriata per lo scopo dato. Nella terminologia di Vermeer, una traduzione è così una nuova offerta di informazioni nella cultura di arrivo su alcune informazioni offerte nella cultura e nella lingua di partenza (Reiss e Vermeer 1984:76) (pagg. 25-26).

Una tale azione "depone" (il termine è nuovamente di Vermeer) il testo di partenza in favore della supremazia di una molteplicità di letture e di una molteplicità di modi possibili della traduzione (pag. 25). "Nessuno", insiste, "può dichiarare di avere il testo di partenza a propria disposizione per trasformarlo nel testo di arrivo" (pag. 119). Non vi è, infatti, alcun testo di partenza, "a meno che non ci si riferisca soltanto a parole o strutture della frase della lingua di partenza" (pag. 31). Pertanto nessuna traduzione può essere mai definitiva, completa, o persino assolutamente corretta. Contrariamente alla dicotomia di Goldblatt, essendo la fedeltà impossibile, la creatività è tutto ciò che abbiamo. Per il futuro, la categoria "errori" dovrebbe cessare di esistere.
L'ideale funzionalista che la Nord propone al posto degli approcci basati sull'equivalenza dipende dalle proposte diSkopos alternative, per le quali (pagg. 92-3):
il traduttore interpreta il testo di partenza non solo in base all'intenzione del mittente, ma anche in rapporto alla sua compatibilità con la situazione di arrivo;
il testo di partenza dovrebbe essere composto in modo tale da adempiere le funzioni che, nella situazione di arrivo, sono compatibili con l'intenzione del mittente;
il mondo racchiuso nel testo della traduzione dovrebbe essere selezionato secondo la funzione intesa del testo di arrivo;
gli elementi del codice dovrebbero essere selezionati in modo tale che l'effetto del testo di arrivo corrisponda alle funzioni intese del testo di arrivo.
La Nord non abbandona completamente le attribuzioni di colpa. Tuttavia, gli “errori di traduzione”, così come li chiama lei, non sono tanto “sbagli” quanto “traduzioni non funzionali”. Si tratta variamente di diversioni rispetto a: “1. la funzione della traduzione, 2. la coerenza del testo, 3. il tipo di testo della forma del testo, 4. convenzioni linguistiche, 5. convenzioni e condizioni specifiche a culture e situazioni, 6. il sistema del linguaggio” (pag. 73)[4]. Sono soluzioni “inadeguate” di problemi traduttivi, piuttosto che trasgressioni morali contro un singolo essere Assoluto le cui rivendicazioni su di noi sono chiare e inevitabili. Il modo in cui si misura l’“adeguatezza” è quasi tanto difficile da definire quanto il modo in cui si misura l’“equivalenza” con il vecchio sistema, eccetto nei termini più strettamente letterali, e la Nord non tenta mai questa misurazione.
Le inadeguatezze funzionali si verificano in quattro modi. Possono essere sbagli di traduzione pragmatici, che sono il risultato di “soluzioni inadeguate a problemi traduttivi pragmatici come la mancanza di orientamento del ricevente”. In secondo luogo, possono essere sbagli di traduzione culturali, che sono “dovuti a una decisione inadeguata in riferimento alla riproduzione o all’adattamento di convenzioni di una cultura specifica”. In terzo luogo, possono essere sbagli traduttivi linguistici, che sono “causati da una traduzione inadeguata quando l’interesse è sulle strutture del linguaggio”. In quarto luogo, e infine, possono essere sbagli traduttivi specifici al testo, che si “riferiscono al problema traduttivo specifico del testo e, come i problemi traduttivi corrispondenti, possono solitamente essere valutati da un punto di vista funzionale o pragmatico” (pagg. 75-78). La serietà di questi quattro tipi di sbagli, afferma la Nord, può essere classificata “dall’alto in basso” (pag. 76). Gli sbagli pragmatici sono “tra quelli più importanti che un traduttore può commettere”, ma sono anche “solitamente non molto difficili da risolvere” (pag. 76). La classificazione di sbagli traduttivi culturali e linguistici dipende dal significato funzionale di ciascuno (pag. 76).
Ciononostante la Nord non si mostra incline ad abbandonarsi alla completa promiscuità, esortando alla “funzione più la lealtà” come alle guide più importanti per un buon modo di tradurre, o almeno per farlo in modo “adeguato”. Come spiega:

La funzione si riferisce ai fattori che fanno funzionare il testo nel modo desiderato nella situazione di arrivo. La lealtà si riferisce alla relazione interpersonale tra il traduttore, il mittente del testo di partenza, gli indirizzi del testo di arrivo e l’iniziatore. La lealtà limita la varietà di funzioni giustificabili del testo di arrivo ad un particolare testo di partenza e crea l’esigenza di una negoziazione dell’incarico di traduzione tra i traduttori e i loro clienti (pag. 126).

Rivendicare la necessità di una varietà di strategie per produrre un testo di arrivo funzionale, spesso discostandosi dalla superficie linguistica del testo di partenza, dà una precisione più fondata alle rivendicazioni di Goldblatt e Raffel. L’argomentazione della Nord ci aiuta a capire che queste strategie non sono da considerarsi imperfezioni o inadeguatezze, accettate di mala voglia come “poesia” astratta ma mai come “dottrina” – sono forme deliberate ed intelligenti sia di creatività che di fedeltà. Sono invero percorsi diversi e inevitabili che i traduttori devono seguire se desiderano creare testi nuovi basati sulle proprie letture appropriatamente funzionali del testo di partenza (gli studiosi, per parafrasare Raffel, hanno quindi diritto alle traduzioni tanto quanto i poeti – ma poiché i loro bisogni sono diversi, a ciascuno di loro occorre un tipo diverso di traduzione).
Se queste strategie di non equivalenza devono essere considerate “errori” allora sono, paradossalmente, “errori intenzionali”, assunti intenzionalmente al fine di ricreare il testo in un modo che si discosta dal significato letterale superficiale del testo di partenza così da rappresentarne altre e più profonde caratteristiche. Altri sbagli o “errori”, che sono il risultato del fatto che le nostre intenzioni non sono né adeguate né appropriate, potrebbero essere considerati, invece, “errori sciocchi”, prodotto dell’ignoranza ma non della malafede. E l’ignoranza può essere superata da “un adeguato livello di competenza linguistica e culturale” (pag. 78).
Questo a sua volta mi conduce a suggerire che, da un punto di vista funzionalista, la valutazione della traduzione viene spesso espressa in modo incorretto. Di solito l’affermazione è semplicemente: “Questo è sbagliato”. Gli approcci funzionalisti – e un rispetto per l’azione intelligente e finalizzata – suggerirebbero piuttosto che le domanda più importanti siano: “Perché il traduttore ha optato per questa particolare scelta traduttiva? Cosa sta cercando di trasmettere del testo di partenza a quello di arrivo?”. Una volta deciso questo, ci troviamo in una posizione migliore per valutare l’adeguatezza, o altro, di una particolare traduzione. Le critiche più aspre sono spesso le più superficiali.
Così Raffel, di nuovo, lamenta il giudizio senza la comprensione:

Quanta differenza può fare quanto bene io discuta e generalizzi i miei problemi, la mia parte di traduttore  nell’infinito dialogo tra scrittore e lettore, quando la discussione e la comprensione, là dall’altra parte, dove ciò che di fatto traduco viene effettivamente letto, sono virtualmente non esistenti? Non penso che molte persone sappiano come leggere una poesia tradotta, o sappiano quale sia una poesia buona o una cattiva. Ancora peggio, penso che troppe persone che ritengono di sapere come leggere e valutare le traduzioni – e che sono in una posizione, come critici e revisori, di proclamare pubblicamente le proprie opinioni – siano incredibilmente in errore (pag. 103).

Ecco. L’errore è loro, dopotutto. Desidero concludere questo intervento con tre esempi semplici e casuali di “errori intenzionali” nel mio lavoro, creati per ciò che ho ritenuto essere una ragione adeguata. Vorrei poi invitare altri partecipanti a condividere il modo in cui hanno giustificato alcuni dei propri “errori intenzionali”.
Il primo era un semplice sbaglio di realtà oggettiva in un racconto breve malese mussulmano, dove l’autore, Shahnon Ahmad, si riferiva a “vodka rossa traboccante dal collo della bottiglia” quando il tappo veniva inizialmente rimosso. La vodka, ovviamente, non è né rossa né ha bollicine. Ho usato “champagne dorato”. Letteralmente sbagliato, ma dal momento che Shahnon stava condannando gli stili di vita occidentalizzati di alcuni malesi che vivevano oltremare che (a suo parere) non avrebbero dovuto bere alcool di alcun tipo, era abbastanza accurato rispetto alla condanna morale. Tuttavia, da un altro punto di vista, occorre dire che neanche Shahnon sapeva realmente di che cosa stesse parlando. Avrei dovuto lasciare l’errore così com’era e avvertire il lettore anche di questo[5]?
Un secondo caso, in quale modo simile. Nel tradurre una storia di letteratura malese classica, ho scoperto che la storia dell’introduzione dell’islamismo nella penisola malese era stata scritta in modo tale da mostrare una chiara e precisa progressione dalla fede eretica a quella ortodossa. Sfortunatamente questo effetto rassicurante era stato conseguito ribaltando la sequenza degli scrittori musulmani presentati all’inizio del capitolo di riferimento. Storicamente, gli scrittori più antichi erano stati i più ortodossi rispetto a quelli successivi. Decisi di riporre i pezzi in ordine cronologico. Di nuovo, la mia traduzione era “sbagliata”: non rappresentava l’ordine del testo o le credenze culturali della comunità contemporanea, che avevano creato e utilizzavano il testo. La mia responsabilità era quella di presentare il testo così com’era, e così come molti malesi credevano avrebbe dovuto essere il caso storico? La Nord nota che: “la riproduzione fedele di errori fattuali contenuti nel testo di partenza può rappresentare una traduzione inadeguata se ci si aspetta che il testo di arrivo sia fattualmente corretto” (pag. 73). Decisi che il mio lavoro si prestava ai futuri studenti di letteratura malese classica e che un evidente travisamento era inappropriato in un libro di testo. Chiaramente una scelta funzionale, ma persi un’introspezione interessante (pur seccante) nell’attuale comprensione malese dell’islamismo. Avrei dovuto farlo?[6]
In terzo luogo, un esempio di traduzione poetica scorretta che ho descritto in molti altre occasioni. L’ultimo verso della poesia “Asmaradana” (Canzone d’amore), estremamente bella, ad opera del più importante poeta indonesiano, Goenawan Mohamad, recita: “Lewat remang dan kunang-kunang, kaulupakan wajahku, kulupakan wajahmu”. Nella poesia, l’eroe Damar Wulan si sta accomiatando dalla principessa Anjasmara così da incontrare morte certa in battaglia contro l’invincibile Menak Jingga. Letteralmente il verso significa “Tempo nuvoloso e lucciole passeggere, dimentichi il mio viso, io dimentico il tuo”. In indonesiano vi è un profondo nesso tra la radice “lupa” (dimenticare) e – non “kunang-kunang” (lucciole), ma il suo omonimo “kenang-kenang” (ricordare). Ho deciso di tradurre il verso: “Nuvola e braci passeggere, dimentichi il mio viso, io dimentico il tuo”[7]. L’eco distante che desideravo era con l’antonimo “ricordare”. Di nuovo sbagliato, e ancora mi chiedo se qualcuno abbia mai sentito gli echi[8].
Ecco, ancora una volta. Il numero di errori che confesso volontariamente è di molto inferiore a quello di cui mi accusano i miei nemici (tre). È ora che altri si vantino delle proprie indiscrezioni più giustificabili.

[1] "The Writing Life", The Washington Post, domenica, 28 aprile 2002, Book World, pag. 10. I miei ringrazimenti alla dott.ssa Patricia Afable, di Chevy Chase, Maryland, USA, per avermi inviato questo articolo.
[2]Hans J. Vermeer; Skopos und Translationsauftrag - Aufsatze(thw - translatorisches handeln wissenschaft 2), Universitat: Heidelberg 1989, pag. 20.
[3]Katharina Reiss e Hans Vermeer: Grundlegung einer allgemeinen Translationstheorie, Niemeyer, Tubingen 1984, pag. 101.
[4] Citazione tratta da Sigrid Kupsch-Losereit; “The problem of translation error evaluation”, in Christopher Tietford e A.E. Hieke (curatori) Translation in Foreign Language Teaching and Testing, Narr, Tubingen 1985, pag. 172.
[5]“Al”, prima pubblicazione in Selesai Sudah, Heinemann Educational Books (Asia), Kuala Lumpur 1978. Traduzione inglese “The Third Notch, Heinemann Educational Books, Hong Kong 1980.
[6] Harun Mat Piah et al: Kesusasteraan Melayu Tradisional, Dewan Bahasa dan Pustaka, Kuala Lumpur, prima edizione 1993.
[7] In inglese l’autore ha voluto inserire, al posto di “fireflies” (lucciole), il termine “ember” (brace) per riportare l’eco di “remember” (ricordare) e quindi cerca di avvicinarsi il più possibile all’eco creato dall’autore (Ndt).
[8] “Asmaradana”, in H. Aveling (curator e traduttore): Contemporary Indonesian Poetry, University of Queensland Press, St Lucia 1975, pagg. 218-9.

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