venerdì 31 maggio 2013

We need more love

Borgo Vecchio Campidoglio - Torino

It would degrade me to marry Heathcliff now; so he shall never know how I love him: and that, not because he's handsome, Nelly, but because he's more myself than I am. Whatever our souls are made of, his and mine are the same; and Linton's is as different as a moonbeam from lightning, or frost from fire.
Wuthering Heiths, by Emily Brontë 

Avec un de ses sourires aux mystérieux sous-entendus, il m'avait cité, dans la version qu'en avait donné Cocteau, le mot de Goethe : « Je t'aime : est-ce que ça te regarde ? » Jugerait-il indiscrètes mes sobres effusions ? Grommellerait-il en lui même « Est-ce que ça me regarde? »
Mémoires d'une jeune fille rangée, de Simone de Beauvoir

martedì 28 maggio 2013

Messaggi per gli alieni e le generazioni future

Mi è appena venuto in mente che quando avevo intorno ai 7/8 anni mi fecero scrivere un biglietto con un mio sogno per il futuro. Doveva essere infilato in una sorta di capsula insieme a quelli di altri bambini e inviato - genericamente - nello spazio. "Come un messaggio in bottiglia", mi avevano detto. "Magari lo trovano altre forme di vita". 

Al tempo ci avevo fantasticato tantissimo. A distanza di anni, mi domando che cosa avessi scritto ma, soprattutto, che razza di progetto fosse (senza troppo stupirmi: mi coinvolgevano sempre in  tantissimi progetti strambi presentandomeli come giochi divertenti - anche se all'invito di imparare il Padre nostro in tedesco avevo opposto un secco e definitivo rifiuto).

Così, seguendo il filo dei pensieri, mi sono ricordata di Mamaev Kurgan, la collina di Volgograd sulla quale si trova il memoriale della feroce, e soprattutto estenuante, battaglia di Stalingrado (l'odierna Volgograd, appunto) che vide scontrarsi gli eserciti russo e tedesco dall'agosto del 1942 al febbraio del 1943. Il memoriale è un imponente e immenso percorso lungo la collina, la cui espressione visiva più famosa è la statua della Madre Patria ("La Madre Patria chiama!") svettante ed enorme in cima. Quello che mi aveva colpito di quel luogo non era tanto la monumentalità del tutto, che comunque era davvero notevole, quanto più il viaggio nella memoria attraverso quelle testimonianze su pietra, le manifestazioni del dolore e dell'eroismo che riproducevano, il forte desiderio di non dimenticare, a partire dalle incisioni su lastra alla base della collina che riportano i nomi delle tredici città sovietiche che si distinsero nella lotta (se non ricordo male: Mosca, Stalingrado, Leningrado, Murmansk, Minsk, Kiev, Sebastopoli, Novorossijsk, Brest, Tula, Kerch, Odessa, Smolensk). 

Senza perdermi e dilungarmi, quello di cui volevo parlare era comunque il messaggio destinato alle generazioni future che i reduci di quella battaglia scrissero il 9 maggio 1970. Il loro non è partito per lo spazio, ma è invece rimasto custodito tra quelle mura, appena prima dell'enorme mausoleo sulle cui pareti sono riportati in minuzioso ordine i nomi dei tantissimi caduti (si stima che persero la vita complessivamente 2 milioni di persone). Quel messaggio verrà letto il 9 maggio 2045, cent'anni dopo la vittoria sovietica, ricordando le perdite, la disperazione, l'incertezza e la paura di quegli anni.

Ora, non vorrei dire, ma chissà che cosa si troveranno invece tra le mani gli alieni...

Memoriale di Mamaev Kurgan - commemorazione del Milite Ignoto
P.S. Al memoriale suona continuamente in sottofondo Traumerei, un brano di Schubert. Qui è interpretato da Horowitz. Buon ascolto.


lunedì 27 maggio 2013

Parco Dora: il parco postapocalittico

"Il Parco Dora è un parco postindustriale...", scrive Wikipedia. Ottima definizione, visto che i segni di un quel passato ci sono tutti, ma aggiungerei anche che sembra un parco postapocalittico. È la seconda volta che mi ci reco: la prima volta c'era un bel sole e nessuno in giro, la seconda un po' di nuvole e... nessuno in giro. È vero che amo le zone disabitate, ma sembra che mi riesca particolarmente bene trovarle, come nel caso della Crocetta

Stavolta l'elemento distintivo è che in teoria, nella parte che mi piace di più, ovvero quella che dal fiume si rivolge verso il centro commerciale, non si potrebbe ancora andare. È un divieto che non capisco, che sembra lasciato un po' al caso: le recinzioni non percorrono tutto il perimetro, alcune reti sono state smontate e già tutto sembra essere stato abbandonato un po' all'incuria.

In alcuni punti, nei prati che separano i sentieri asfaltati, l'erba è molto alta e piena di papaveri, piante di camomilla e altri fiori che non riconosco. In lontananza si vedono la collina, Superga, la torre della chiesa Faà di Bruno e i resti vuoti delle fabbriche che un tempo ingrigivano la zona, che molto ricordano gli scheletri delle balene che si vedono nei musei di Storia naturale.







La torre evaporativa


Non è per nulla una meraviglia. Eppure c'è qualcosa, in tanto abbandono, che mi affascina. Forse è il fatto che d'un tratto, se non per qualche punto di riferimento lontano, ci si sente del tutto avulsi dal contesto cittadino. O forse è l'artificialità che si annusa nell'aria, poi andata sfumandosi. 

Sicuramente nel giro di qualche mese il Comune invierà qualcuno a falciare l'erba, a sistemare i cestini, ad abbellire, a dare una disposizione ordinata ai fiori e a tutto quello che si può far rientrare in uno schema geometrico, a uniformare. Certo qualcuno che raccolga le cartacce e le lattine già presenti qui e là è necessario, tuttavia - anche se non dovrei - spero che ci siano abbastanza fondi solo per quello e nient'altro. C'è un che di liberatorio e piacevole, in tanto mancato rigore.






















P.S. La zona di cui parlo è l'Area Michelin - 89.000 metri quadrati. Il Parco Dora, nel suo complesso, ne misura 456.000.

domenica 26 maggio 2013

The Lizzie Bennet Diaries

I Lizzie Bennet Diaries sono una cosa che gli amanti di Jane Austen non si possono perdere. A me all'inizio non piacevano tantissimo, ma ero curiosa di vedere come avrebbero adattato la storia per poterla riproporre tutta in formato video blog (o "vlog"). Insomma, a posteriori è recitato benissimo e geniale nella sceneggiatura. Li ammiro molto.

La prima puntata qui sotto e a questo link tutta la serie.


sabato 25 maggio 2013

Non ho pollici verdi ma opponibili

Ho paura che, a forza di scriverne, finirò per avere una lunga lista di tentativi falliti. Eppure stavolta non solo sono stata ottimista, ma ambiziosa, ambiziosissima.



Da notare che il rabarbaro, lui, è di nuovo presente. Ho anche comprato un paio di vasi nuovi. Poi, ricordandomi che occorrevano anche i sottovasi, sono tornata al negozio e li ho chiaramente presi delle dimensioni sbagliate.

(...)

Così, accanto al microvaso col quadrifoglio invisibile (leggasi: mai spuntato), ora ci sono loro.



Nelle foto le piantine sono state da poco trapiantate in uno dei vasi nuovi. Non so se ho fatto bene. All'inizio certo sembrava una buona idea, visto com'erano accalcate, ma tirandole fuori dalla terra erano così esili e incerte su quei gambi striminziti che continuavo a ripetere loro che è un po' traumatico all'inizio, ma poi ci si abitua nel vaso nuovo, nella terra nuova, allo spazio nuovo. Terminando il tutto con: "Starai bene, vero?" e la speranza che quell'articolo che sosteneva che parlare alle piante le rallegra avesse un fondo di verità.


Questi a sinistra sono quindi rabarbari rallegrati dal mio blaterare. Immagino si noti. Le altre due foto rappresentano invece... Ecco, mi piacerebbe farlo indovinare ad altri, ma poi non saprei confermare o smentire. Il fatto è che ho piantato anche l'anice, le fragole rampicanti, le carote e i pomodori, non so che forma abbiano le piantine né in che vaso le ho messe. Geniale, vero?






















L'unica cosa certa è che fotografare le piante col cellulare, di sera e col flash non è il modo migliore per presentarle. Perciò assicuro che sono molto più carine di così (soprattutto: quelle nella foto di destra non sono immerse in una brodaglia strana).

Dulcis in fundo, la vite vergine ha cominciato a dar segno della sua presenza.


Maggio
Marzo



venerdì 24 maggio 2013

Reificazione

Io voglio, il suo mantra. Il complemento oggetto ad accompagnare la frase non era necessario, bastava il desiderio insito in quelle due. Due. Parole. Io voglio. Se lo pregustava sulla lingua cercando con gli occhi di corredarle di uno slancio emozionale forte verso un qualsiasi oggetto degno d’attenzione, che fosse parimenti colorato e costoso. Da invidiare, da poter mostrare con innocente indifferenza.  
La soddisfazione era doppia: sua e del genitore ad accompagnarlo. Due facce piene e tronfie, quella di reggenti in terra: l’una, quella di Angelo, mimava con doverosa costanza una vittoria già prevista ma non scontata; l’altra, quella del padre Arturo o di sua moglie, il ritratto mobile e sfumato di una bonaria soddisfazione ad avere un bambino tanto “esigente. Ma sai, è così intelligente.. si annoia subito di tutto, povero caro. Poi i giochi di oggi son talmente complicati da essere sicuramente educativi”.
Plastica, pixel, la luce iridescente del monitor a sorridere su quella pelle giovane e fresca ancora in crescita e di fronte a quegli occhi così rotondi. Pomeriggi pigri di Roma, il sole che sale e sciupa la città e le sue polveri nell’aria afosa, Angelo e i suoi amici di scuola a lasciar sagome sul tappeto verde, quello in salotto, di fronte al videogioco. Angelo che ascolta musica in internet, che si diverte, che impara, “impara più a casa che a scuola, per carità.. cosa non c’è su internet. Ti ricordi, di quando facevamo le ricerche in biblioteca? Sulle enciclopedie? Ha ha, non ci posso pensare, oggi basta così poco, a questi bambini”. 
Arturo legge ogni giorno il giornale, è un’abitudine che ha incollata addosso fin da bambino, da quando ha imparato a leggere. La mattina Angelo si trova a faccia a faccia con grandi fette di pane imburrate e queste grandi, enormi pagine di giornale. Tra un morso e l’altro le guarda, con apprensione e occhi sgranati, come se da un momento all’altro potessero crollargli addosso: lo annienterebbero, pensa. Poi trattiene il respiro, le pagine scricchiolano, ricompare suo padre. Gli sorride. Per una frazione di secondo si chiede chi sia, ma non fa in tempo ad accorgersi della cosa. “Sei già pronto per andare? Muoviti, che se no faccio tardi”.
Durezza, irreprensibilità. Arturo ha lo sguardo severo, i pensieri chiari e non ama le frivolezze. “Cos’era quella foto?”,  si azzarda il piccolo a chiedere, facendo cenno col mento al quotidiano. 
In copertina troneggia un’immagine sobria di un telo bianco dalla forma confusa. Angelo non riesce a capirne il senso.
“Un omicidio”.
“Cos’è un omicidio?”
“È quando una persona viene uccisa”.
“È divertente?”
“No, Angelo. Quando una persona viene uccisa muore. Significa che non c’è più.”
Il bambino resta in silenzio, cerca di capire. Immagina un mondo diverso, al di là di quel lenzuolo. Un mondo colorato e costoso, senza scuola, senza sole troppo caldo, vento troppo forte. Immagina un passaggio segreto.
“E dove si trova una persona che uccide?”
Arturo lo guarda. Così stupito dalla domanda da non trovare una risposta. E per questo, non per la domanda in sé, rimane turbato. “Muoviti, che altrimenti faccio tardi”. 
Angelo annuisce, non insiste. Continua a fantasticare, ha qualcosa di nuovo cui pensare. Corre a prendere la cartella e segue felice e docile il padre per farsi portare a scuola. Ha un segreto, ha scoperto una cosa nuova, un nuovo desiderio tutto per sé e si sente grande. Qualcosa di potentissimo, di cui nessun amico gli ha mai parlato e di cui non parlerà per primo, ha troppo valore. “Voglio trovare una persona che uccide”.



Angelo era un bel bambino. Nel suo visetto acerbo e paffuto si intravedevano già dei lineamenti adulti e consapevoli. A otto anni il padre Arturo lo guardava di nascosto con curiosità. Lo vedeva crescere come non se lo aspettava: benché nei suoi tratti ci fossero i propri (labbra sottili e dritte, zigomi ben delineati), si trovava compromesso di tanto in tanto da un colpo d’occhio, un ammiccamento sottile che al bambino sfuggivano quando non si sentiva osservato. “Hai visto come cresce? Mi sembra ogni giorno nuovo”, commentava la sera, prima di andare a dormire, la voce ferma per non tradire una certa irrequietezza. “Si fa grande”, mormorava Carla, mezza assonnata, “soprattutto a questa età, i bambini cambiano continuamente. Ti ricordi tua nipote, Anna, alla sua età? È normale”, sorrideva indulgente, “in men che non si dica sarà alto quanto te”. Arturo fissava il soffitto, non rispondeva. Era suo figlio, ma quel bambino sembrava sfuggirgli. Aveva qualcosa, nei suoi modi, nel suo muoversi, che sembrava suggerirgli una recita. Quel bambino era un bambino perché sapeva di essere un bambino e come tale si comportava. Faceva i capricci quando doveva, piangeva quando voleva, rideva quando giocava. Faceva il bambino, finché lo si osservava. Quando però lo si guardava da una porta socchiusa, di nascosto, aveva un non so che di straordinario, di inquietante, di progettuale. Sebbene la sua indole non lo rendesse incline all’eccessiva attenzione verso le persone, sintomo della tendenza di molti al sentimentalismo e all’attaccamento affettivo, quel bambino – il suo bambino – lo spingeva ad eccessi voyeuristici frequenti. 
Mentre gli occhi di Angelo diventavano, con l’adolescenza, sempre più rotondi e folli – nutriti dal sogno e dai grandi progetti che con palpebre sgranate cercava di intravedere nel futuro, quelli di Arturo si appesantivano, caricati e impregnati delle preoccupazioni irrazionali con cui ormai amava trastullarsi ogni giorno.  La sua incapacità di comunicare, non solo con la moglie, ma con chiunque avesse attorno – per insicurezza o profonda debolezza, a piacere - lo metteva al riparo da qualsiasi rassicurazione, da qualsiasi confronto o possibile oasi di verbale tranquillità che, altrimenti, si sarebbe potuto concedere grazie alla beata noncuranza di cui sarebbe stato complice nella condivisione dei suoi pensieri. 
Vittima della sua educazione (ché ogni gesto sembrava essere sintomo e malattia insieme), schiavo di fantasie e preoccupazioni, il giorno che realizzò l’imminente partenza del ragazzo per un viaggio studio di sei mesi all’estero si gettò in fretta, furia e compostezza, dal balcone con vista panoramica che li aveva convinti a scegliere quel determinato palazzo.
Roma era bellissima, quella sera: il crepuscolo tingeva le ombre di rosso, scivolava lungo gli alti palazzi e andava a morire più lentamente del solito. Anche Arturo non si spense subito, si fece accompagnare dal sole. E in quella penombra che ne offuscava la vista, in quel rantolo che non si trasformava in parole, in quel dolore che gli intimava l’abbandono del corpo, vide il viso di suo figlio farsi vicino: “dove l’hai trovata una persona che uccide?”

Opera di Piero Marai

mercoledì 22 maggio 2013

Nizza: Cathédrale Saint-Nicolas

La scorsa settimana, dopo ben quattro tentativi falliti (abbiamo sempre l'incredibile capacità di arrivare raramente troppo presto, spesso troppo tardi, sempre nei giorni di chiusura), siamo riusciti a visitare la cattedrale di San Nicola (in italiano Wikipedia ne parla come della "chiesa russa ortodossa di San Nicola".

Era da qualche anno che non entravo in una chiesa ortodossa e mi sono riaffiorati talmente tanti ricordi che mi sono un po' emozionata (certo, ha contribuito anche l'aver finalmente trovato il cancello aperto). 


L'edificio è splendido: eretto nel 1912 sulla base di un progetto di Mikhail Préobrajenski, professore di architettura presso l'Accademia imperiale di Belle Arti di San Pietroburgo, viene considerato generalmente uno degli esempi visivamente più belli di chiesa russa in Europa occidentale. 


 Cathédrale Saint-Nicolas
 Cathédrale Saint-Nicolas


Sulla sinistra lo sfuggente pope
 Cathédrale Saint-Nicolas



Cathédrale Saint-Nicolas

All'interno non si potevano scattare fotografie, ma prima di entrare si poteva bere un po' dell'acqua santa contenuta in questi bizzarri contenitori. Non ne ho mai visti di simili altrove.

"This holy water!"




















Nikolaj Aleksandrovič Romanov




Intorno vi è un giardino incredibilmente tranquillo, con il busto in onore dell'erede al trono Nikolaj Aleksandrovič Romanov, morto a Nizza nel 1865, e la cappella eretta in sua memoria. 























Avevo già parlato della presenza russa a Nizza tempo fa, in occasione della mostra che era stata allestita al Museo Masséna.

venerdì 17 maggio 2013

Ho visto una persona che ha avuto un ruolo nella mia vita

Oggi, mentre prendevo una pausa tra le migliaia di passi che ho percorso al Salone del Libro, seduta dietro al banco di un piccolo stand, è passata davanti a me una signora: vestiti anonimi, capelli nerissimi raccolti in una crocchia, né alta né bassa, faccia lunga, guance tristi, trascinava con sé diverse buste e si guardava attorno, ma aveva il passo di chi è deciso a non fermarsi pur non avendo una destinazione. Io dentro di me ho sentito un clic, si è smosso qualcosa, ma sono rimasta lì seduta, imbambolata a fissare la scia del suo percorso. Lei era già sparita tra la folla. Erano circa le 13.30. Non mi sono alzata, non mi sono mossa, mi sono sentita d'improvviso muta e scossa.

Ciò che mi disturbava era che, pur avendone osservato solo il profilo, di quella signora ero in grado di ricostruire esattamente tutto il viso con un'inattesa e inquietante precisione. Per questo, quando L. mi ha raggiunto, la prima cosa che gli ho detto è stata: "Ho visto una persona che ha avuto un ruolo nella mia vita". "Chi?"
"Non lo so".

Il pomeriggio è proseguito così, a guardare libri in ogni dove, ad ascoltare discorsi, a osservare ammirata lavori e idee nuove e ad assaggiare stuzzichini e sorbetti al limone, ma soprattutto a duellare in silenzio con il mondo dei ricordi, passando in rassegna i volti di professori, amici di famiglia, lontani parenti e improbabili conoscenti di soggiorni all'estero. Molte cose erano così sbiadite e ininfluenti che le lasciavo scivolare via con noncuranza, ma di fatto non sapevo dove cercare: ogni piccola esperienza della mia vita rappresentava un corridoio della memoria, un mondo a sé stante con immagini ben definite di ciò che mi aveva colpito, attratto, emozionato. A determinate cose appartenevano determinate persone, a determinate persone appartenevano determinati percorsi, a determinati percorsi determinate musiche, libri, cieli e così via. Ognuno ha della sua vita una propria narrazione, dove la confusione assume un suo ordine preciso, un suo dispiegarsi, ma quella donna era un tassello che nel mio narrato sentivo essere stato presente, importante, persistente, ma non ero in grado di rimetterlo a posto. 

Sognavo e speravo di rivederla passare. Senta, le avrei detto, io mi chiamo così. Io non so chi è lei, ma so che ci siamo incontrate spesso. Non è che ha voglia di aiutarmi a capire dove?
Fortunatamente non l'ho incrociata di nuovo, altrimenti con molta probabilità le avrei fatto prendere un colpo. 
Verso le 18.30 L. mi ha chiesto cosa ne pensassi di una casa editrice dal cui stand eravamo appena passati, ma io avevo appena imboccato il corridoio giusto. Ci avevo messo tanto perché era polveroso, dimentico, lontano: era la signora da cui compravo il Ciocorì quando andavo alle elementari, prima di entrare a scuola. Ci tenevo così tanto a passare da lei che anche quando non avevo le lire che mi occorrevano entravo, la avvertivo che quel giorno avevo i mandarini (tre, sempre tre) e le auguravo buona giornata. Il suo viso era uno di quelli che sembrano perennemente imbronciati, ma mi piaceva la sua gentilezza.

Ribadisco: fortunatamente non l'ho incrociata di nuovo, perché a quel punto l'avrei probabilmente abbracciata. E le avrei fatto prendere un colpo.



lunedì 6 maggio 2013

... siam mica qui a insegnare pilates ai fenicotteri!

La mia allegra passeggiata per Torino. 

Un box auto non mi serve, grazie, ma una risata regalata mi fa sempre piacere.


... siam mica qui a smacchiare i giaguari!!!
... siam mica qui a inzuppare i wafer nel latte alle ginocchia!!!
... siam mica qui a togliere le occhiaie ai panda!!!
... siam mica qui a far le righe alle zebre!!!
... siam mica qui a portare a spasso le lumache!!!
... siam mica qui a raddrizzare le banane!!!
... siam mica qui a rasare i pelati!!!
... siam mica qui a far la permanente ai cocker!!!
... siam mica qui a insegnare pilates ai fenicotteri!

sabato 4 maggio 2013

We never know for sure about ourselves


…the truth is, we never know for sure about ourselves. Who we'll sleep with if given the opportunity, who we'll betray in the right circumstance, whose faith and love we will reward with our own. … Which is why we have spouses and children and parents and colleagues and friends, because someone has to know us better than we know ourselves. We need them to tell us. ...
The Straight Man, Richard Russo

Iwazaru, Mizaru and Kikazaru

venerdì 3 maggio 2013

Torino: Let's Swing! al Jazz Festival


Quest'anno a Torino è tornato il Jazz Festival e io l'ho colta come una splendida occasione per uscire di casa praticamente tutte le sere. In particolare, ci sono andata tre volte: la prima ha cominciato a piovere a catinelle, la seconda (cause varie) siamo arrivati a spettacolo concluso e la terza... abbiamo ballato lo swing!

Da notare che la mia amica mi ha passato il video per imparare i passi tre giorni prima e quindi, vista la fretta, ho trascorso le giornate a tradurre e a prendermi pause ballerine in cui allontanavo la sedia dal tavolo, facevo un po' di spazio e mi mettevo a fare pratica. Il mio cane puntualmente non capiva il motivo di tanta agitazione e mi saltava addosso, un po' per partecipare, un po' per incitarmi a rimettermi al lavoro.

Ecco allora il video di Let's Swing!, ovvero del mini-flash mob organizzato per l'occasione (e mi si vede anche, nelle retrovie!). Non fossimo stati così stipati, sicuramente mi sarei divertita di più.


mercoledì 1 maggio 2013

Torino: la Crocetta, il quartiere dell'assenza

Qualche settimana fa mi sono svegliata col nervoso e il cruccio addosso: ho svogliatamente fatto colazione, mi sono svogliatamente vestita, sono svogliatamente uscita di casa e mi sono svogliatamente diretta a un appuntamento di lavoro molto importante. Sarà forse palese, ma la sua importanza era direttamente proporzionale al mio malumore. Insomma, facevo i capricci. 

Questo incontro comunque si teneva alla Crocetta, un quartiere che fino a un anno fa non avevo mai tenuto molto in considerazione, anche se pure Wikipedia ne parla come di "una delle zone residenziali di maggior prestigio". Prima di un anno fa infatti avevo avuto contatto con quelle vie solo per quattro occorrenze: 

- in uno dei suoi libri mio nonno descriveva con affetto uno di quei corsi, dove con un amico aveva l'abitudine di andare a passeggiare (e io  amavo immaginarlo lì, a camminare e filosofeggiare in compagnia e, chissà perché, coi colori del crepuscolo e dell'autunno); 
- un'amica mi aveva parlato del suo mitologico mercato, dove tra gli oggetti carissimi, se uno aveva occhio, era possibile trovare roba di marca a prezzi stracciati; 
- ero già andata due o tre volte a visitare la Galleria d'Arte Moderna, che vi troneggia quieta, con la scultura di un albero sospeso a mezz'aria davanti alle sue porte; 
- una volta mi ero recata al Circolo della Stampa ad ascoltare un concerto di musica classica mal eseguito (e il fatto che me ne sia accorta io la dice lunga).

Insomma, un anno fa, complice un'amica che aveva iniziato a lavorare alla GAM, mi ero ritrovata a gironzolare lì attorno diverse volte, in attesa dell'orario di chiusura, e avevo deciso che un giorno mi sarei trasferita in via Magenta, della quale mi ero innamorata. In questo frangente non è importante sapere se ce lo si può permettere o meno, ma piuttosto l'aspetto decisionale della cosa. Chiaramente.

Qualche settimana fa, dicevo, sono giunta all'incontro con una nuvola nera addosso e, una volta terminato il fattaccio, eccomi lì, sul marciapiede fuori da un edificio bellissimo, a non sapere granché cosa fare. Era un'ora fessa, di quelle che tagliano a metà la mattinata. Tornare subito a casa e mettersi a lavorare era fuori discussione e così ne ho approfittato per esplorare più a fondo la zona. 

Punto sempre l'attenzione sull'aspetto decisionale, perché è l'unica cosa che mi salva: volevo sì visitare la zona ma, pur avendo camminato in lungo e in largo per un paio d'ore, mi sono accorta a posteriori di non essere forse andata oltre quattro o cinque isolati. Mi sentivo estasiata da tutto, contenta di un sole tiepido dopo giorni di pioggia, mi sentivo Marcovaldo che trova un fungo in mezzo al grigiore urbano, mi sentivo... sul set di Vanilla Sky. In giro non c'era un'anima, ma solo scheletri di villette, alberi nodosi e grigi o dai rami dritti puntati fitti fitti verso il cielo, persiane abbassate. Solo il mercato pullulava di vita, ma in quel contesto aveva l'aria di un alveare in mezzo al deserto. 

Camminavo in mezzo alle vie senza badare a nulla, godendomi l'inconsueta libertà dell'assenza del mondo e del quasi completo silenzio attorno. Nessuna macchina, solo rumori lontani e, ogni tanto, un altro essere umano che, nell'incrocio di sguardi, sembrava essere stato colto sul fatto di esserci, lì e in quel momento, come per errore, come una lepre di fronte ai fari di un'auto. 

Così mi sono scattata una fotografia. Giusto per ricordarmi di esserci ancora anch'io.


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