Il vestito bianco le sta troppo stretto, è troppo
corto. E quei tacchi sono troppo alti, la punta delle scarpe troppo lunga,
sgualcita. Cammina come se avesse scricchiolanti dolori alle caviglie, la
schiena curva. L'apparenza di un oggetto ingombrante che respira e che in virtù
di questo ha la facoltà di tentare di nascondersi. Ha tutto ciò che in questo
luogo non si dovrebbe portare, scomodità e paura.
Dall'esterno sembra una macelleria, ma invece di corpi
nudi d'animale squartati e appesi, vi sono quadri di sangue che invitano ad
entrare, macabri e informi. I pavimenti sono puliti, li ho lustrati io stesso.
Controllo sempre che all'entrata le persone abbiano scarpe pulite e asciutte e
per quanto mi si sia già intimato di smettere, continuo furtivamente a compiere
questo piccolo rito: li guardo sorridendo ampiamente, poi - torvo - chiedo loro
scherzosamente se han le suole pulite, ché dentro è uno specchio e tale deve
rimanere. Ridono, la prendono per una battuta, ma per stare a questa sorta di
gioco quasi mi mostrano la loro innocenza alzando di poco le suole e - per non
rischiare eventuali sorprese, controllano furtivamente poco dopo.
La seguo con lo sguardo, segue la lunga fila che dall'entrata si sparpaglia
nelle varie stanze ed entra in quella che puzza di pesce. La Marina, si chiama.
Finemente arredata in blu, luci soffuse, pesci di cartapesta appesi al soffitto
al cui interno sono state poste tante piccole lampadine che, filtrando luce
dalle branchie ben intagliate, creano effetti luminosi diversi e lineari sulle
pareti. Ondeggiano, spesso toccati per pura curiosità dal pubblico (effetto
voluto dagli organizzatori, che li han posti alla giusta distanza per essere
raggiunti da un braccio teso), creando con le stesse luci l'atmosfera che si
può ipotizzare sotto la superficie del mare. Ci sono divani a forma di coda di
sirena, corridoi tappezzati d'alghe calpestabili e poltrone a conchiglia. Chi
vi entra si disperde facilmente, è uno spazio enorme e spesso nauseante, a mio
avviso. I fidanzatini si tengono sempre per mano, avanzano prendendosi in giro
boccheggiando allegri, gonfiando le guance, strabuzzando gli occhi. È svilente, quello che possono fare, umanizzando ogni altra forma animale. Del
resto a tutti insegnano, fin da piccoli, ad imitare per apprendere.
L'imitazione poi prende la mano e comincia ad essere utilizzata anche per gli
scopi più tragici, come divertire.
Lei si è tolta le scarpe all'entrata, evitando così di farsi seguire da una scia di ticchettii salmastri. L'ho persa di vista in fretta, tra le tante teste. Continuo a sorridere, a guardare di soppiatto chi entra, a controllare le scarpe. Mi passa quasi di mente quando la vedo tornare, gli occhi a bulbo e i capelli sconvolti da chissà quale marea. È troppo bruna, troppo tornita, troppo storta sulle ginocchia aguzze. Deve aver perso una delle due scarpe, ne ha solo più una in mano, che intravedo a distanza vagamente umida, gocciolante forse. Deve aver raggiunto come minimo l'acquario. Si guarda intorno appoggiandosi ad una parete, si china guardando fisso alla sua destra e poggia la scarpa in un angolo, e mentre si rialza si ravviva i capelli, cercando di guadagnare un'aria disinvolta. Incrocia il mio sguardo, che distolgo.
Quando mi
rigiro, però, è scomparsa.