lunedì 4 gennaio 2016

Sei un traduttore, un attore o un impostore?

Stavo ascoltando oggi l’ultima puntata del 2015 del New York Times Book Review, la rassegna tenuta da Pamela Paul sul mondo della letteratura. Interveniva in quest’occasione Heather Havrilevsky per parlare dell’ultimo libro di Amy Cuddy: “Presence. Bringing Your Boldest Self to Your Biggest Challenges”. Un discorso interessante, quello di Amy Cuddy, perché partito dalla sindrome dell’impostore, ovvero la convinzione di non meritare i successi ottenuti e la conseguente tendenza ad attribuire i propri meriti ad agenti esterni. Si tratta di un fenomeno molto frequente soprattutto in ambiti accademici. Su di me esercita un fascino particolare perché ne ho sofferto a lungo, almeno per tutto il periodo in cui ho frequentato il master in traduzione e oltre, anche nei primi anni della mia attività.

A soffrirne in prima persona è stata anche Amy Cuddy, oggi psicologa e professoressa ad Harvard, che racconta di aver ricevuto un valido consiglio, ovvero di comportarsi come la persona che gli altri si aspettavano fosse finché non si fosse sentita effettivamente quella persona. Un bel giro di parole, vero?

In uno dei primi giorni del master mi sentivo talmente fuori posto che andai a chiedere a una professoressa di darmi degli esercizi in più per mettermi al pari con gli altri. Anche se per accedere avevamo tutti superato il medesimo esame, io mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Una notte avevo addirittura sognato di confessare a un’amica che mi avrebbero scoperta a breve. 

Amy Cuddy ha cominciato a chiedersi: che differenza c’è tra la scelta di assumere un determinato comportamento e il sentire tale comportamento come proprio? Esternamente, nulla: sfruttando il linguaggio del corpo (e la comunicazione) a proprio vantaggio, è possibile fare in modo che gli altri non percepiscano la nostra insicurezza ma che, anzi, traggano un’impressione del tutto contraria del nostro stato d’animo. Insomma, ai loro occhi potremmo risultare sicuri di noi stessi, decisi, assertivi. Ma sarebbe solo una recita?

Ciò che Amy Cuddy sostiene è che la propria presenza corporea può di per se stessa innescare una memoria emotiva. Quindi non sarebbe più il sentimento a influenzare il corpo, ma il corpo a influenzare il sentimento, rendendo infine autentico l’atteggiamento adottato. Ne aveva già parlato in occasione del suo intervento ai TEDTalks nel 2012, dove spiegava che assumere una postura di “potere” prima di un colloquio di lavoro, ad esempio ammirarsi per dieci minuti allo specchio con le mani sui fianchi a mo’ di Superman, avrebbe reso il candidato più sicuro di sé e brillante perché influenzato dal suo stesso atteggiamento non verbale.

Quindi no, in ultimo non sarebbe una recita; tuttavia l’idea della Cuddy era già stata introdotta in ambito teatrale da Stanislavskij, secondo il quale per rievocare una determinata emozione l’attore doveva compiere il gesto a cui lei/lui intimamente la abbinava. In soldoni: se ogni volta che sono felice mi tocco l’orecchio, toccarmi l’orecchio può verosimilmente ricordarmi cosa significa essere felice e, di conseguenza, determinare in me una sensazione di felicità. Ricorrendo a questa dinamica, l’attore può rendere più realistica la sua interpretazione. Piccola nota, fuori tema ma non troppo: se non l’avete letto, qui trovate un bellissimo articolo su traduzione e teatro scritto da Giulia Baselica.

Tutto questo è applicabile anche al mondo della traduzione? Tempo fa un’agenzia di traduzioni aveva scritto un post in cui consigliava ai traduttori alle prime armi di accettare lavori in ambiti nuovi pur non essendo del tutto padroni dell’argomento trattato. L’idea era che inizialmente avrebbero incontrato molte difficoltà e avrebbero dovuto fare il triplo della fatica, ma col tempo e con molto impegno alla fine avrebbero acquisito quelle stesse competenze che erano state loro richieste sin dall’inizio. Molti traduttori nei commenti avevano criticato il consiglio, ma io non l’ho trovato del tutto sbagliato.

Dopo aver terminato il master a pieni voti ho iniziato a ricevere richieste da diversi clienti ma, come dicevo prima, almeno per un paio d’anni non ho smesso di sentirmi un’impostora. L’atteggiamento di cui parla Amy Cuddy l’ho adottato nella comunicazione, ad esempio nelle e-mail, dove cercavo di non far trapelare la mia insicurezza. Eppure la verità è che, ancora oggi, ogni richiesta è una sfida nuova, non c’è mai un lavoro facile, non c’è un momento in cui sai tutto o un testo per cui non ti debba documentare. Quindi non ho detto sempre sì, ma se avessi dovuto accettare solo di tradurre documenti relativi a un argomento di cui mi sentivo totalmente padrona o per cui mi sentivo sicura, non avrei mai lavorato come traduttrice.

Il mondo della traduzione è particolarmente difficile perché non ci sarà mai ambito privo di segreti per nessuno. Se quindi è vero che lanciarsi in settori sconosciuti può essere rischioso (tanto per il traduttore quanto per il cliente che sceglie di affidargli il lavoro), lo è altrettanto il fatto che per imparare bisogna mettersi in gioco e da qualche parte bisogna iniziare. Siamo tutti fallibili; il resto è tutta questione di buon senso.

6 commenti:

  1. Molto interessante il post!

    Non sapevo dell'esistenza della sindrome dell'impostore, ma vedo che in Rete è presente una gran quantità di materiale. Non ne ho mai sofferto e mi è impossibile capire come ci si possa sentire (un po' come chi non ha mai sperimentato un attacco di panico non può nemmeno immaginare quello che provo io in certe situazioni).

    La parte più interessante del post, però, è (almeno per me) la seconda.
    Il consiglio di quell'agenzia che "consigliava ai traduttori alle prime armi di accettare lavori in ambiti nuovi pur non essendo del tutto padroni dell’argomento trattato" mi sembra non solo altamente valido, ma applicabile a moltissime situazioni, certamente a quasi tutte quelle lavorative (escludo centrali nucleari, programmazione informatica di alto livello, chirurgia e poche altre discipline).

    Provo a tratteggiare una modellizzazione formale.
    Supponiamo che ognuno di noi abbia un campo di competenze di cui è totalmente padrone; comprensibilmente questo ambito assorbe la gran parte del nostro lavoro. Nell'eseguire i nostri compiti lavorativi quotidiani di norma veniamo a contatto con campi più o meno attigui, campi per i quali abbiamo competenze nulle o molto limitate. A questo punto immaginiamo la seguente rete insiemistica. Un insieme centrale rappresenta il campo di competenze che padroneggiamo a pieno; all'interno di questo insieme figuriamoci un numerino tra 0 e 100, una percentuale, che indica il nostro livello di padronanza della materia; probabilmente sarà una percentuale superiore a 85/90. Da questo insieme primario si dipartono alcune frecce che si collegano a una serie di altri insiemi, gli insiemi delle competenze secondarie. Anche qui avremo dei numerini, ma molto più bassi. La situazione va immaginata nella sua dinamicità. Il numerino dell'insieme centrale si muoverà progressivamente e molto lentamente verso un livello di saturazione, cioè verso un valore sempre più vicino a 100 (suppongo che in un ambito come quello delle traduzioni il valore 100 non si possa mai raggiungere veramente, ma solo approssimare). Man mano che entriamo in contatto con campi attigui matureremo negli stessi qualche piccolo progresso e i numerini della modellizzazione qui presentata saliranno. La crescita del valore dell'insieme primario è lenta e continua, mentre la crescita dei valori degli insiemi discontinui è discontinua e a strappi.
    A questo punto nasce un quesito: qual è il momento giusto per buttarsi e accettare di eseguire un lavoro che ricade nell'ambito delle nostre competenze secondarie? Vista la mia premessa è già chiaro che per me è utile e salutare fare un'operazione di questo tipo. Si tratta solo di definire il valore critico. Va da sé che un valore di competenze troppo basso ci esporrebbe a rischi di una certa rilevanza. Faremmo un cattivo lavoro con la possibilità (spiacevolissima) di incorrere in un pericoloso passaparola a nostri danni, il che sarebbe molto controproducente. Sul fronte opposto, se aspettassimo di raggiungere un livello di competenze troppo alto il problema sarebbe quello di entrare sul mercato troppo tardi e perdere opportunità importanti. Ovviamente la soluzione è quella intermedia, difficile da quantificare, ma non da qualificare; intendo un valore di competenze ancora imperfetto con cui porteremmo a termine un lavoro non pienamente soddisfacente, ma allo stesso tempo non scarso o deludente. Il vantaggio di buttarci su lavori di questo tipo è il fatto che essi sono una formidabile palestra per allenare le nostre competenze secondarie, che un giorno potrebbero addirittura diventare co-primarie.

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    1. Grazie mille per il tuo commento :) Pensa che non sapevo neanche fosse riconosciuta come vera e propria "sindrome", quella dell'impostore. Non ci pensavo da tempo e ne ho sentito parlare nell'ultimo corso su Coursera che ho seguito, Learning How to Learn. Poi in questo spesso periodo, come avrai letto nel post, l'ho ricollegata a varie cose.

      Mi è piaciuta molto la tua modellizzazione formale. La considero una spiegazione perfetta e molto più pratica di quel che intendevo con "buon senso". Quando il lavoro proposto si trova in quella zona che tu definisci "punto critico", potrebbe valer la pena accettare la sfida. Se poi ci pensi, è un discorso che rientra sempre in quella "flessibilità" che tanto viene oggi richiesta nel mondo del lavoro (vedi Sennett e "L'uomo flessibile").

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  2. Mi fa piacere che hai apprezzato!

    Sulla necessità del "buttarsi" quando si è in un "intorno" del punto critico faccio un altro esempio: l'apprendimento delle lingue.

    Cito un paio di situazioni a caso delle tante che conosco per esperienza diretta. Anche tu sarai sicuramente entrata in contatto con persone che tendono a non parlare una lingua straniera perché non si sentono all'altezza e temono di fare errori e brutte figure; in genere persone di questo tipo si tengono in disparte, danno contributi minimi a una conversazione (spesso sotto forma di cenni o di mimica facciale) e, di norma, solo se chiamati in causa, altrimenti preferiscono rimanere in silenzio e ascoltare. Non che ascoltare non sia importante, ma "sporcarsi le mani" e confrontarsi con errori, sbagli, strafalcioni, ecc. è molto più importante; uno sbaglio, infatti, ha un effetto memoria fortissimo.

    Il primo esempio riguarda una coppia di amici lituani; lei, che ha studiato Inglese alle scuole superiori, è laureata, lavora in un studio legale di un certo prestigio, ecc. non parla con me in Inglese perché ha paura di non essere capace; lui (il marito), fa il costruttore tra Svezia e Norvegia, non è laureato, non ha studiato Inglese alle scuole secondarie (dove - caso piuttosto raro nella Lituania sovietica - ha studiato Tedesco), ma l'Inglese lo ha appreso tardivamente e autonomamente "sul campo". Il buon Ramūnas (questo il suo nome) se ne fotte della sua grammatica imperfetta e parla senza farsi problemi; il risultato è che da un lato noi riusciamo a chiacchierare piacevolmente e allegramente di tutto (ma proprio di tutto), dall'altro ogni volta che ci vediamo io lo trovo migliorato. Sua moglie Laima, invece, né comunica né migliora (gli scambi di opinioni sono molto più rari e quasi sempre mediati dalla traduzione di mia moglie).

    Il secondo esempio riguarda il padre della mia ex fidanzata estone (Voldemar). Anche lui era autodidatta sia in Inglese che in Tedesco; grammatica molto traballante (anzi, questo è un eufemismo), ma abbiamo passato serate molto interessanti, anche in questo caso conversando più o meno di tutto (con, da parte sua, miscugli linguistici davvero arditi: Inglese, Tedesco, Russo, Estone e talvolta persino di Toscano). Age, la sorella della mia ex, per contro, tendeva a non parlare per paura di sbagliare.

    Qual è il momento giusto di buttarsi? Credo che ognuno lo conosca quasi istintivamente, per così dire se lo sente dentro; questa, almeno, è la mia impressione e la mia esperienza. Per esempio, la mia conoscenza della lingua lituana è molto scarsa, la lingua è difficile e, per via della sua struttura a casi e declinazioni, io provo nei suoi confronti una fortissima avversione (il mio apprendimento è prevalentemente passivo, a cui però si aggiunge il grosso contributo dato dal bilinguismo di mia figlia); tuttavia non manco mai di usare tutto il mio limitatissimo armamentario; al ristorante non ordino mai in Inglese e uso tutto il vocabolario che posso usare; certamente non sono in grado di portare avanti una conversazione con i miei suoceri, ma appena posso qualche parola la butto lì, e faccio ovviamente un sacco di errori, che tuttavia non mi spaventano.
    Verrà un giorno in cui, superata la soglia critica, tutto andrà in discesa. E se quel giorno non dovesse mai arrivare mi sarò divertito lo stesso!

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    1. Sono d'accordo. In questo caso secondo me l'effetto memorizzante lo dà lo sforzo che ci si mette nel tentativo di comunicare. Sono appena uscita da un'esperienza in questo senso con il russo, sabato ;)

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  3. Sono talmente affetta dalla sindrome dell'impostore (impostora?), essendomi inventata traduttrice un po' per caso, da aver più volte ventilato l'ipotesi di lasciar perdere e cercarmi un altro lavoro. Ho provato con tecniche analoghe a quelle suggerite dalla Cudd ma - forse perché quando lavoro a un testo sono in perfetta solitudine - la visualizzazione di una me stessa "al top" non mi ha mai aiutata granché :-) Il mio problema, credo, è che non riesco a mantenere quello che lituopadania (ben) definisce il valore critico a un livello costante nel tempo, ma tendo a farlo aumentare a mano a mano che acquisto esperienza; questo può essere un bene, perché ti porta a cercare costantemente di migliorarti, ma è una tendenza che va presa in piccole dosi perché alla lunga è paralizzante!

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    1. Ciao Eva, bentornata e grazie per il commento. Non ho capito bene perché il tuo punto critico aumenta. Man mano che lavori in un settore, non tendi ad acquisire maggiore sicurezza in quella determinata materia? O forse 'più sai, più sai di non sapere'? :)

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