martedì 23 ottobre 2012

Un palindromo


Il posto è buio, illuminato solo da qualche tenue luce blu che proviene dal palco. 
Lei rimane lì, appoggiata al muro, un bicchiere in mano da cui raramente coglie qualche sorso per passare il tempo riflettendo sulla differenza tra i plurali di Osso, lo sguardo perso verso un punto generalmente appropriato.
Non c’è musica, non c’è luce, non c’è niente. Solo quelle quattro lettere in croce che, rigirate su sé stesse, tornano ad essere propria immagine riflessa. Osso. E poi quell’anomalia della lingua: Ossi, Ossa.
La infastidisce terribilmente, troppe esse, poco attrito, poche ragioni.
Così si gira verso il tipo che ha accanto.

“La mia testa non funziona più”, gli ha spiegato. “Non riesco più a focalizzare. C’è..”

“Come?”, le ha fatto lui, scuotendo la testa di un soffio.

“Dicevo..”, ha alzato la voce, “C’è questa parola che..”

“Non ti sento!”

“OSSO!”, ha gridato. Meglio partire dal fulcro della questione, si è detta.

“POSSO COSA?”

È in quel momento che se ne è accorta. Si muoveva a tempo, lui si muoveva a tempo. C’era musica, c’era luce, c’era il mondo lì, attorno. Gente. Persone. Tutti pieni di braccia, bracci, dita, diti, ossa, ossi.  Ballavano. Tutti. Muovevano tutte quelle cose ed era tutto così: scomposto, aggressivo. 
Gli ha passato il bicchiere e si è diretta verso l’uscita, facendosi largo tra i corpi. Lui le ha urlato dietro qualcosa di poco carino, dato fondo al drink e buttato il bicchiere a terra.

Ha dimenticato la giacca, tornando a casa infreddolita. Si è preparata un tè che ha lasciato lì a raffreddare per la mattina dopo. Poi ha preso un libro, l’ha sfogliato brevemente e si è accigliata un istante, sussurrando meccanicamente:
Ossi se presi separatamente; ossa come insieme dell’ossatura umana.
Poi se ne è andata a dormire.

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