Stavo ascoltando oggi l’ultima puntata del 2015 del New York Times Book Review, la rassegna tenuta da Pamela Paul sul mondo della letteratura. Interveniva in quest’occasione Heather Havrilevsky per parlare dell’ultimo libro di Amy Cuddy: “Presence. Bringing Your Boldest Self to Your Biggest Challenges”. Un discorso interessante, quello di Amy Cuddy, perché partito dalla sindrome dell’impostore, ovvero la convinzione di non meritare i successi ottenuti e la conseguente tendenza ad attribuire i propri meriti ad agenti esterni. Si tratta di un fenomeno molto frequente soprattutto in ambiti accademici. Su di me esercita un fascino particolare perché ne ho sofferto a lungo, almeno per tutto il periodo in cui ho frequentato il master in traduzione e oltre, anche nei primi anni della mia attività.
A soffrirne in prima persona è stata anche Amy Cuddy, oggi psicologa e professoressa ad Harvard, che racconta di aver ricevuto un valido consiglio, ovvero di comportarsi come la persona che gli altri si aspettavano fosse finché non si fosse sentita effettivamente quella persona. Un bel giro di parole, vero?
In uno dei primi giorni del master mi sentivo talmente fuori posto che andai a chiedere a una professoressa di darmi degli esercizi in più per mettermi al pari con gli altri. Anche se per accedere avevamo tutti superato il medesimo esame, io mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Una notte avevo addirittura sognato di confessare a un’amica che mi avrebbero scoperta a breve.
Amy Cuddy ha cominciato a chiedersi: che differenza c’è tra la scelta di assumere un determinato comportamento e il sentire tale comportamento come proprio? Esternamente, nulla: sfruttando il linguaggio del corpo (e la comunicazione) a proprio vantaggio, è possibile fare in modo che gli altri non percepiscano la nostra insicurezza ma che, anzi, traggano un’impressione del tutto contraria del nostro stato d’animo. Insomma, ai loro occhi potremmo risultare sicuri di noi stessi, decisi, assertivi. Ma sarebbe solo una recita?
Ciò che Amy Cuddy sostiene è che la
propria presenza corporea può di per se stessa innescare una memoria emotiva. Quindi
non sarebbe più il sentimento a influenzare il corpo, ma il corpo a influenzare il sentimento, rendendo infine autentico l’atteggiamento adottato. Ne aveva già parlato in occasione del
suo intervento ai TEDTalks nel 2012, dove spiegava che assumere una postura di “potere” prima di un colloquio di lavoro, ad esempio ammirarsi per dieci minuti allo specchio con le mani sui fianchi a mo’ di Superman, avrebbe reso il candidato più sicuro di sé e brillante perché influenzato dal suo stesso atteggiamento non verbale.
Quindi no, in ultimo non sarebbe una recita; tuttavia l’idea della Cuddy era già stata introdotta in ambito teatrale da Stanislavskij, secondo il quale per rievocare una determinata emozione l’attore doveva compiere il gesto a cui lei/lui intimamente la abbinava. In soldoni: se ogni volta che sono felice mi tocco l’orecchio, toccarmi l’orecchio può verosimilmente ricordarmi cosa significa essere felice e, di conseguenza, determinare in me una sensazione di felicità. Ricorrendo a questa dinamica, l’attore può rendere più realistica la sua interpretazione.
Piccola nota, fuori tema ma non troppo: se non l’avete letto, qui trovate un bellissimo articolo su traduzione e teatro scritto da Giulia Baselica.
Tutto questo è applicabile anche al mondo della traduzione? Tempo fa un’agenzia di traduzioni aveva scritto un post in cui consigliava ai traduttori alle prime armi di accettare lavori in ambiti nuovi pur non essendo del tutto padroni dell’argomento trattato. L’idea era che inizialmente avrebbero incontrato molte difficoltà e avrebbero dovuto fare il triplo della fatica, ma col tempo e con molto impegno alla fine avrebbero acquisito quelle stesse competenze che erano state loro richieste sin dall’inizio. Molti traduttori nei commenti avevano criticato il consiglio, ma io non l’ho trovato del tutto sbagliato.
Dopo aver terminato il master a pieni voti ho iniziato a ricevere richieste da diversi clienti ma, come dicevo prima, almeno per un paio d’anni non ho smesso di sentirmi un’impostora. L’atteggiamento di cui parla Amy Cuddy l’ho adottato nella comunicazione, ad esempio nelle e-mail, dove cercavo di non far trapelare la mia insicurezza. Eppure la verità è che, ancora oggi, ogni richiesta è una sfida nuova, non c’è mai un lavoro facile, non c’è un momento in cui sai tutto o un testo per cui non ti debba documentare. Quindi non ho detto sempre sì, ma se avessi dovuto accettare solo di tradurre documenti relativi a un argomento di cui mi sentivo totalmente padrona o per cui mi sentivo sicura, non avrei mai lavorato come traduttrice.
Il mondo della traduzione è particolarmente difficile perché non ci sarà mai ambito privo di segreti per nessuno. Se quindi è vero che lanciarsi in settori sconosciuti può essere rischioso (tanto per il traduttore quanto per il cliente che sceglie di affidargli il lavoro), lo è altrettanto il fatto che per imparare bisogna mettersi in gioco e da qualche parte bisogna iniziare. Siamo tutti fallibili; il resto è tutta questione di buon senso.