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martedì 23 agosto 2016

Senso civico

- Ieri allora sono venuti i Vigili.
- Come mai?
- Avevo visto un cane morto vicino al guard rail, perciò li ho chiamati. Sapessi che pena, quegli occhietti che mi guardavano...
- Occhietti? Aveva gli occhi aperti?
- Sì. Ho pensato quasi fosse un pupazzo, per quanto erano vitrei, ma poi ho visto i dentini.
- I dentini? È morto a bocca aperta?
- Eh. Comunque il vigile è arrivato e all'inizio mi ha detto che sembrava più una volpe...
- Che strano, una volpe da quelle parti.
- ...poi mi ha detto che probabilmente era morta da più di qualche giorno...
- Ma tu te ne saresti accorta, no?
- ...e quando infine l'ha presa ha detto che era impagliata.
- Ah.
- Eh.
- Si è urtato?
- No, mi ha detto anzi che era contento non fosse morto nessun cane.
- Infatti.
- Però...
- Però...?
- Però ora io non potrò più fare segnalazioni.
- Perché?
- Perché ora dirà a tutti i colleghi che l'ho chiamato per un cane morto quando invece si trattava di un animale impagliato.
- Non penso sia così grave, può capitare...
- No, no, ormai è fatta...
- Ma poi figurati, per quanti Vigili ci sono a Torino!
- No, è così. Mi avranno schedata. Sai una cosa, però?
- No, cosa?
- È proprio un peccato, sono una persona così attenta!

sabato 5 luglio 2014

Quando i miei vicini litigano

Quando i miei vicini litigano, sembra che intorno il silenzio si faccia più intenso, i passi per i ballatoi più felpati, i giochi dei bambini attutiti. Persino i saluti tra dirimpettai si diradano, lasciando spazio a discreti cenni del capo.

Quando i miei vicini litigano si arriva a un punto in cui si sentono solo le urla di lei, mentre le risposte di lui spariscono e nulla rimane se non singhiozzi. Allora la voce di lei si fa più umida e fuori piove.

Quando i miei vicini litigano a volte ti viene il mal di testa, ma mai ti prende l’idea di far presente che sono appena le sette e mezza del mattino. Il sole è in piena ascesa, ma il dolore non ha orari e del loro vorresti partecipare solo per ricordare che tutto si risolve, in un modo o nell’altro.

Quando i miei vicini litigano, invece, non si risolve mai niente. E la parete che vi divide, che filtra le loro voci e impotenze, la vedi assottigliarsi in tante piccole sbarre di prigione. Diversamente solida e immobile, apre spiragli su un mondo di solitudine a due.

Non urlare, mi scoppia la testa, le dice lui.
Se non urlo crollo anch’io, risponde lei.


E così vanno avanti, usando ognuno il suo bastone.

Fonte

sabato 4 gennaio 2014

Di traduzione: il mio primo milione!

Translating is not pouring wine from one bottle into another. Substance and form cannot be separated easily... Translating is more like wrenching a soul from its body and luring it into a different one. It means killing.
Rosmarie Waldrop, The Joy of the Demiurge


Ho trovato questa citazione un paio di giorni fa su Tumblr e mi è piaciuta molto, perché non solo parla di traduzione, ma mi ricorda la pittura. La pittura?, ci sarebbe da domandare. Sì, mi ricorda Kandinskij e una mattina di milioni di anni fa, quando in visita a Parigi per un paio di giorni mia madre e il suo compagno mi svegliarono all'alba per trainarmi attraverso una città silenziosa e immersa nel primo sole mattutino. Giungemmo al Centre Pompidou che saranno state le 7, ma il museo d'arte moderna era aperto e, fino alle 8, fantasticamente gratuito. Mi sembrava di dover camminare in punta di piedi, a quell'ora e in quel silenzio irreali, e non ricordo tantissimo se non l'emozione del trovarmi di fronte a un quadro di un artista che fino ad allora avevo conosciuto solo di nome (Internet non esisteva e non avevo manco l'età per poter dire di aver affrontato una lezione di storia dell'arte). 

Giallo Rosso Blu, 1925
Se una persona riuscisse a trovare il modo di spiegare un dipinto di quel calibro e a trasmettere forma e colore tanto quanto forza e intensità attraverso le parole o la musica o qualsivoglia altra espressione artistica, allora riuscirebbe in un atto traduttivo da un linguaggio all'altro. E quest'idea di ricerca passionale, attenta e violenta ma al contempo impossibile dell'esatta corrispondenza espressiva ed emozionale tra due codici diversi, dà un'idea più chiara di quella che è la vera difficoltà del lavoro del traduttore.

Oggi mi sono svegliata con voglia di città all'alba, silenzio e croissant. E di Kandinskij. Capita, alle volte.
Poi, devo festeggiare il mio primo milione di parole tradotte. In realtà l'ho superato da un po', ma me ne sono accorta soltanto oggi. Yay me!

giovedì 21 novembre 2013

L'ultima sigaretta, un racconto

Il giorno che diventammo umani


Il 26 settembre 2009, intorno all’una e un quarto della notte, mentre fuori un cielo pieno di nuvole scure si chiudeva intorno a Padova, lui, disteso sul letto matrimoniale in stile futon, accanto al sonno profondo di sua moglie, fu scosso da un attacco improvviso e violentissimo di tosse...

Inizia così questo racconto, che potete leggere integralmente qui. Si intitola "L'ultima sigaretta", è stato scritto da Paolo Zardi e fa parte della raccolta "Il giorno che diventammo umani" (Neo Edizioni).  

Ah! La copertina, che secondo me è bellissima, è opera di Toni Alfano. Sul suo sito la trovate in versioni dai toni un po' più inquietanti. 

lunedì 23 settembre 2013

Sulla strada per il Musée Renoir...

Questa volta ce l'abbiamo fatta, ad  andare al Musée Renoir. Anni fa ci avevamo provato, ma quando poi ci eravamo incastrati con la macchina nelle stradine del borgo medievale, dovendo poi uscire in retromarcia con gente che per metà  rideva, per metà ci insultava, avevamo deciso di rimandare. Stavolta, comodissimi, abbiamo usufruito dei magnifici pullman della Costa azzurra che, per 1,50  ti fanno viaggiare da Menton a Cannes. 

Durante il viaggio d'andata sono rimasta dapprima affascinata da una coppietta d'anziani: si tenevano per mano, tutti sorrisi. Il loro comportamento è andato lentamente mutando però una volta saliti sul pullman: occhi negli occhi, parlavano fitto fitto e si stringevano la mano, iniziando a salutarsi e a scambiarsi occhiate preoccupate, orari e programmi per ritrovarsi poi più tardi, verso sera. Lui è sceso due fermate prima e, mentre il pullman ripartiva, stavano a guardarsi e a sventolare l'uno e l'altra la mano in segno di saluto.

Le aiuole di L.
Poi siamo finalmente arrivati a Cagnes. Non conoscendo né la strada né il numero dell'altro bus da prendere, ho pensato bene di chiedere a una signora seduta lì alla fermata intenta a farsi i fatti suoi o, meglio (e io me ne accorgo sempre dopo... ), a limarsi e mangiarsi le unghie che di tanto in tanto sputava a terra dopo averle strappate con i denti. Era in realtà un'anima buona ma molto, troppo, premurosa. Ho tentato di allontanarmi fino alla fermata di fronte (dove intanto L. si fumava una sigaretta tranquillo, in attesa...), ma è riuscita a farmi  raggiungere da tre persone diverse e riportare lì da lei, ché con le gambe stanche, il corpo pesante e il bastone faceva fatica a muoversi. Poco prima che arrivasse il suo bus la limetta le è scivolata di mano e il suo dito si è fatto rosso pomodoro, grondante sangue. Ci siamo messe allora all'affannosa ricerca di un fazzolettino, mentre L. osservava di lontano i fiori delle aiuole e il bus accostava. Di un fazzolettino nessuna traccia, ma ha preso il suo carrello, è salita, le porte si sono chiuse, L. è ricomparso di fianco a me, io ho sospirato. Ho fatto appena in tempo a dirgli che comunque era simpatica, solo non mi lasciava più andar via, che...

...


... come a rallentatore...


...


... 


...

... le porte del bus si sono riaperte e lei è scesa di nuovo. 'Sti autisti!, ha gridato. Che maleducazione! Ho chiesto se aveva un fazzolettino per il mio dito, e mi ha risposto che mica fa l'infermiere!

L. era già scomparso.

mercoledì 11 settembre 2013

Pausa poetica

Stamattina, tra un sito e l'altro, sono inciampata su una poesia di Pascoli. Sono strane, le ragnatele dei ricordi, queste trame che, partendo da un particolare impigliato nella tela, puoi percorrere seguendo le mille diramazioni che da lì dipartono.

Già qualche mese fa, tentando di riconoscere una signora incrociata per caso, mi ero accorta di questa dimensione. Quella era stata un'azione svolta a ritroso, una faticosa ricerca, spolverino alla mano, per tentare di restituire a delle fattezze familiari il giusto contorno. Avevo allora parlato di corridoi, perché in quel mio sforzo avevo iniziato a scartabellare ogni periodo della mia vita, ogni luogo che avevo visto o dove avevo vissuto, ogni persona che aveva incrociato i miei passi, come se ogni elemento avesse una sua particolare stanza e, a sua volta, un filo logico ben saldo. Insomma: lì ci si poteva arrivare solo seguendo un determinato percorso. Ecco perché se conosci bene una persona a volte sai già cosa dirà in un determinato momento, o come reagirà in una data circostanza, mi ero detta. Lo sai perché ti basi sulla ripetizione dei suoi comportamenti o perché, consciamente o istintivamente, sai quale effetto produrrà un determinato stimolo, una parola, un gesto. Non era proprio la scoperta dell'acqua calda, lo so, ma non ricordo, prima di allora, di aver mai avuto una percezione visiva di questo meccanismo. Richiamavo alla memoria ciò che desideravo, o magari ripensavo a qualche situazione specifica, ma ogni elemento aveva una natura prettamente estemporanea.

Eppure un corridoio presuppone mura, le mura un edificio a far loro da contorno e l'edificio è rigido, ben delineato. Invece oggi, con Montale lì, fermo e immobile al centro, vittima del ragno dei miei ricordi, la memoria non era più pareti e soffitti, ma aria, alberi, cielo. Flessibile e resiliente, si prestava ai giochi del sole e del vento, a voci lontane. Ho risalito allora quei fili fino al punto più alto, spaziato con lo sguardo intorno, e visto giungere, da una finestra, una bellissima luce a definire il profilo di mia nonna, seduta sul suo letto, con delle carte in una mano. Senti Alice, mi aveva detto, senti questa storia. Allora, chiudendo gli occhi e  muovendo l'indice come la bacchetta di un direttore d'orchestra che segue il ritmo delle strofe, aveva iniziato a recitare Pascoli.

Nella Torre il silenzio era già alto.

Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

I cavalli normanni alle lor poste

frangean la biada con rumor di croste.

Là in fondo la cavalla era, selvaggia,

nata tra i pini su la salsa spiaggia;

che nelle froge avea del mar gli spruzzi

ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.

Con su la greppia un gomito, da essa

era mia madre; e le dicea sommessa:

“O cavallina, cavallina storna,

che portavi colui che non ritorna

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!

Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

il primo d’otto tra miei figli e figlie;

e la sua mano non toccò mai briglie.

Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,

tu dài retta alla sua piccola mano.

Tu ch’hai nel cuore la marina brulla,

tu dài retta alla sua voce fanciulla”.

La cavalla volgea la scarna testa

verso mia madre, che dicea più mesta:

“O cavallina, cavallina storna,

che portavi colui che non ritorna;

lo so, lo so, che tu l’amavi forte!

Con lui c’eri tu sola e la sua morte.

O nata in selve tra l’ondate e il vento,

tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

sentendo lasso nella bocca il morso,

nel cuor veloce tu premesti il corso:

adagio seguitasti la tua via,

perché facesse in pace l’agonia...”

La scarna lunga testa era daccanto

al dolce viso di mia madre in pianto.

“O cavallina, cavallina storna,

che portavi colui che non ritorna;

oh! due parole egli dové pur dire!

E tu capisci, ma non sai ridire.

Tu con le briglie sciolte tra le zampe,

con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

con negli orecchi l’eco degli scoppi,

seguitasti la via tra gli alti pioppi:

lo riportavi tra il morir del sole,

perché udissimo noi le sue parole”.

Stava attenta la lunga testa fiera.

Mia madre l’abbracciò su la criniera

“O cavallina, cavallina storna,

portavi a casa sua chi non ritorna!

a me, chi non ritornerà più mai!

Tu fosti buona... Ma parlar non sai!

Tu non sai, poverina; altri non osa.

Oh! ma tu devi dirmi una cosa!

Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:

esso t’è qui nelle pupille fise.

Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.

E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.

Ora, i cavalli non frangean la biada:

dormian sognando il bianco della strada.

La paglia non battean con l’unghie vuote:

dormian sognando il rullo delle ruote.

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome... Sonò alto un nitrito.

martedì 6 agosto 2013

Il cane dei vicini

La cagnolina dei vicini è morta. Era un affarino minuscolo, forse di razza, forse no, con il pelo bianco e marrone chiaro e ciuffi sparsi qui e lì. L'anno scorso, una sera, il vicino l'aveva portata giù senza guinzaglio e mentre lui, distratto, buttava via la spazzatura, lei era scomparsa nel nulla. Subito erano iniziate le azioni di ricerca in pompa magna e il quartiere era stato battuto a tappeto: della cagnolina nessuna traccia. Due giorni dopo un canile aveva chiamato: l'avevano ritrovata nei pressi della stazione ferroviaria. I vicini non si spiegavano come potesse essere giunta fin lì, visto che camminava a fatica. "Qualcuno l'ha rapita pensando fosse un cucciolo e poi l'ha abbandonata rendendosi conto che è una vecchietta", avevano commentato.

Visto che alle ricerche avevo partecipato, ché qui a casa mia gli animali sono parte della famiglia e l'idea di una cagnolino o un gatto sperduto è per noi cosa inconcepibile, da allora i vicini, gente scorbutica che prima di allora non era mai riuscita a raccogliere abbastanza voce per rispondere al mio educato saluto, hanno iniziato a sorridermi, lui, e a parlarmi, lei. E l'altro giorno è andata all'incirca così:

- Ma sa che la mia cagnolina è morta?
- Oh, mi spiace. Com'è successo?
- Eh... è caduta dal balcone, sa? Era cieca, ma non ce n'eravamo mica accorti e sul balcone non c'era la rete. 
- Ma poverina. Quanti anni aveva?
- Eh, diciotto... Mio marito ancora si deve riprendere. Ma non è morta cadendo dal balcone, sa? [ndt: abitano al QUARTO piano]
- No?
- No: sotto c'erano le tende della vicina e hanno attutito la caduta.
- Quindi è stato lo choc della caduta?
- No no, è andata avanti ancora per tre mesi, poi è morta di vecchiaia...

La conversazione è proseguita ancora per un paio di minuti. Più tardi, tornata a casa, pensavo ancora alla storia di questa povera cagnetta, insospettatamente cieca, precipitata dal balcone e miracolosamente sopravvissuta...

- Sai che è morta la cagnolina dei vicini?
- Quale cagnetta?
Quella che era scomparsa vicino ai bidoni della spazzatura l'anno scorso. Aveva 18 anni ed è morta di vecchiaia, ma la signora mi ha raccontato che non si erano accorti che era cieca e che tre mesi prima era caduta giù dal balcone, ma che si era salv...
- Ah sì, questo lo sapevo. È caduta dal balcone due volte, non una.
- DUE?!? 
- Sì, qualche mese fa e alla fine dell'anno scorso.

Ecco, continuo a pensare a questa povera cagnolina e, con orrore, al fatto che la vicina, prossima a salutarmi, aveva fatto scivolare lì, tra una parola e l'altra, la terribile frase: "Stiamo pensando di prendere un altro cane". In caso, dovesse scomparire nel nulla anche lui, il biglietto per il treno glielo pago io.

venerdì 24 maggio 2013

Reificazione

Io voglio, il suo mantra. Il complemento oggetto ad accompagnare la frase non era necessario, bastava il desiderio insito in quelle due. Due. Parole. Io voglio. Se lo pregustava sulla lingua cercando con gli occhi di corredarle di uno slancio emozionale forte verso un qualsiasi oggetto degno d’attenzione, che fosse parimenti colorato e costoso. Da invidiare, da poter mostrare con innocente indifferenza.  
La soddisfazione era doppia: sua e del genitore ad accompagnarlo. Due facce piene e tronfie, quella di reggenti in terra: l’una, quella di Angelo, mimava con doverosa costanza una vittoria già prevista ma non scontata; l’altra, quella del padre Arturo o di sua moglie, il ritratto mobile e sfumato di una bonaria soddisfazione ad avere un bambino tanto “esigente. Ma sai, è così intelligente.. si annoia subito di tutto, povero caro. Poi i giochi di oggi son talmente complicati da essere sicuramente educativi”.
Plastica, pixel, la luce iridescente del monitor a sorridere su quella pelle giovane e fresca ancora in crescita e di fronte a quegli occhi così rotondi. Pomeriggi pigri di Roma, il sole che sale e sciupa la città e le sue polveri nell’aria afosa, Angelo e i suoi amici di scuola a lasciar sagome sul tappeto verde, quello in salotto, di fronte al videogioco. Angelo che ascolta musica in internet, che si diverte, che impara, “impara più a casa che a scuola, per carità.. cosa non c’è su internet. Ti ricordi, di quando facevamo le ricerche in biblioteca? Sulle enciclopedie? Ha ha, non ci posso pensare, oggi basta così poco, a questi bambini”. 
Arturo legge ogni giorno il giornale, è un’abitudine che ha incollata addosso fin da bambino, da quando ha imparato a leggere. La mattina Angelo si trova a faccia a faccia con grandi fette di pane imburrate e queste grandi, enormi pagine di giornale. Tra un morso e l’altro le guarda, con apprensione e occhi sgranati, come se da un momento all’altro potessero crollargli addosso: lo annienterebbero, pensa. Poi trattiene il respiro, le pagine scricchiolano, ricompare suo padre. Gli sorride. Per una frazione di secondo si chiede chi sia, ma non fa in tempo ad accorgersi della cosa. “Sei già pronto per andare? Muoviti, che se no faccio tardi”.
Durezza, irreprensibilità. Arturo ha lo sguardo severo, i pensieri chiari e non ama le frivolezze. “Cos’era quella foto?”,  si azzarda il piccolo a chiedere, facendo cenno col mento al quotidiano. 
In copertina troneggia un’immagine sobria di un telo bianco dalla forma confusa. Angelo non riesce a capirne il senso.
“Un omicidio”.
“Cos’è un omicidio?”
“È quando una persona viene uccisa”.
“È divertente?”
“No, Angelo. Quando una persona viene uccisa muore. Significa che non c’è più.”
Il bambino resta in silenzio, cerca di capire. Immagina un mondo diverso, al di là di quel lenzuolo. Un mondo colorato e costoso, senza scuola, senza sole troppo caldo, vento troppo forte. Immagina un passaggio segreto.
“E dove si trova una persona che uccide?”
Arturo lo guarda. Così stupito dalla domanda da non trovare una risposta. E per questo, non per la domanda in sé, rimane turbato. “Muoviti, che altrimenti faccio tardi”. 
Angelo annuisce, non insiste. Continua a fantasticare, ha qualcosa di nuovo cui pensare. Corre a prendere la cartella e segue felice e docile il padre per farsi portare a scuola. Ha un segreto, ha scoperto una cosa nuova, un nuovo desiderio tutto per sé e si sente grande. Qualcosa di potentissimo, di cui nessun amico gli ha mai parlato e di cui non parlerà per primo, ha troppo valore. “Voglio trovare una persona che uccide”.



Angelo era un bel bambino. Nel suo visetto acerbo e paffuto si intravedevano già dei lineamenti adulti e consapevoli. A otto anni il padre Arturo lo guardava di nascosto con curiosità. Lo vedeva crescere come non se lo aspettava: benché nei suoi tratti ci fossero i propri (labbra sottili e dritte, zigomi ben delineati), si trovava compromesso di tanto in tanto da un colpo d’occhio, un ammiccamento sottile che al bambino sfuggivano quando non si sentiva osservato. “Hai visto come cresce? Mi sembra ogni giorno nuovo”, commentava la sera, prima di andare a dormire, la voce ferma per non tradire una certa irrequietezza. “Si fa grande”, mormorava Carla, mezza assonnata, “soprattutto a questa età, i bambini cambiano continuamente. Ti ricordi tua nipote, Anna, alla sua età? È normale”, sorrideva indulgente, “in men che non si dica sarà alto quanto te”. Arturo fissava il soffitto, non rispondeva. Era suo figlio, ma quel bambino sembrava sfuggirgli. Aveva qualcosa, nei suoi modi, nel suo muoversi, che sembrava suggerirgli una recita. Quel bambino era un bambino perché sapeva di essere un bambino e come tale si comportava. Faceva i capricci quando doveva, piangeva quando voleva, rideva quando giocava. Faceva il bambino, finché lo si osservava. Quando però lo si guardava da una porta socchiusa, di nascosto, aveva un non so che di straordinario, di inquietante, di progettuale. Sebbene la sua indole non lo rendesse incline all’eccessiva attenzione verso le persone, sintomo della tendenza di molti al sentimentalismo e all’attaccamento affettivo, quel bambino – il suo bambino – lo spingeva ad eccessi voyeuristici frequenti. 
Mentre gli occhi di Angelo diventavano, con l’adolescenza, sempre più rotondi e folli – nutriti dal sogno e dai grandi progetti che con palpebre sgranate cercava di intravedere nel futuro, quelli di Arturo si appesantivano, caricati e impregnati delle preoccupazioni irrazionali con cui ormai amava trastullarsi ogni giorno.  La sua incapacità di comunicare, non solo con la moglie, ma con chiunque avesse attorno – per insicurezza o profonda debolezza, a piacere - lo metteva al riparo da qualsiasi rassicurazione, da qualsiasi confronto o possibile oasi di verbale tranquillità che, altrimenti, si sarebbe potuto concedere grazie alla beata noncuranza di cui sarebbe stato complice nella condivisione dei suoi pensieri. 
Vittima della sua educazione (ché ogni gesto sembrava essere sintomo e malattia insieme), schiavo di fantasie e preoccupazioni, il giorno che realizzò l’imminente partenza del ragazzo per un viaggio studio di sei mesi all’estero si gettò in fretta, furia e compostezza, dal balcone con vista panoramica che li aveva convinti a scegliere quel determinato palazzo.
Roma era bellissima, quella sera: il crepuscolo tingeva le ombre di rosso, scivolava lungo gli alti palazzi e andava a morire più lentamente del solito. Anche Arturo non si spense subito, si fece accompagnare dal sole. E in quella penombra che ne offuscava la vista, in quel rantolo che non si trasformava in parole, in quel dolore che gli intimava l’abbandono del corpo, vide il viso di suo figlio farsi vicino: “dove l’hai trovata una persona che uccide?”

Opera di Piero Marai

venerdì 17 maggio 2013

Ho visto una persona che ha avuto un ruolo nella mia vita

Oggi, mentre prendevo una pausa tra le migliaia di passi che ho percorso al Salone del Libro, seduta dietro al banco di un piccolo stand, è passata davanti a me una signora: vestiti anonimi, capelli nerissimi raccolti in una crocchia, né alta né bassa, faccia lunga, guance tristi, trascinava con sé diverse buste e si guardava attorno, ma aveva il passo di chi è deciso a non fermarsi pur non avendo una destinazione. Io dentro di me ho sentito un clic, si è smosso qualcosa, ma sono rimasta lì seduta, imbambolata a fissare la scia del suo percorso. Lei era già sparita tra la folla. Erano circa le 13.30. Non mi sono alzata, non mi sono mossa, mi sono sentita d'improvviso muta e scossa.

Ciò che mi disturbava era che, pur avendone osservato solo il profilo, di quella signora ero in grado di ricostruire esattamente tutto il viso con un'inattesa e inquietante precisione. Per questo, quando L. mi ha raggiunto, la prima cosa che gli ho detto è stata: "Ho visto una persona che ha avuto un ruolo nella mia vita". "Chi?"
"Non lo so".

Il pomeriggio è proseguito così, a guardare libri in ogni dove, ad ascoltare discorsi, a osservare ammirata lavori e idee nuove e ad assaggiare stuzzichini e sorbetti al limone, ma soprattutto a duellare in silenzio con il mondo dei ricordi, passando in rassegna i volti di professori, amici di famiglia, lontani parenti e improbabili conoscenti di soggiorni all'estero. Molte cose erano così sbiadite e ininfluenti che le lasciavo scivolare via con noncuranza, ma di fatto non sapevo dove cercare: ogni piccola esperienza della mia vita rappresentava un corridoio della memoria, un mondo a sé stante con immagini ben definite di ciò che mi aveva colpito, attratto, emozionato. A determinate cose appartenevano determinate persone, a determinate persone appartenevano determinati percorsi, a determinati percorsi determinate musiche, libri, cieli e così via. Ognuno ha della sua vita una propria narrazione, dove la confusione assume un suo ordine preciso, un suo dispiegarsi, ma quella donna era un tassello che nel mio narrato sentivo essere stato presente, importante, persistente, ma non ero in grado di rimetterlo a posto. 

Sognavo e speravo di rivederla passare. Senta, le avrei detto, io mi chiamo così. Io non so chi è lei, ma so che ci siamo incontrate spesso. Non è che ha voglia di aiutarmi a capire dove?
Fortunatamente non l'ho incrociata di nuovo, altrimenti con molta probabilità le avrei fatto prendere un colpo. 
Verso le 18.30 L. mi ha chiesto cosa ne pensassi di una casa editrice dal cui stand eravamo appena passati, ma io avevo appena imboccato il corridoio giusto. Ci avevo messo tanto perché era polveroso, dimentico, lontano: era la signora da cui compravo il Ciocorì quando andavo alle elementari, prima di entrare a scuola. Ci tenevo così tanto a passare da lei che anche quando non avevo le lire che mi occorrevano entravo, la avvertivo che quel giorno avevo i mandarini (tre, sempre tre) e le auguravo buona giornata. Il suo viso era uno di quelli che sembrano perennemente imbronciati, ma mi piaceva la sua gentilezza.

Ribadisco: fortunatamente non l'ho incrociata di nuovo, perché a quel punto l'avrei probabilmente abbracciata. E le avrei fatto prendere un colpo.



mercoledì 1 maggio 2013

Torino: la Crocetta, il quartiere dell'assenza

Qualche settimana fa mi sono svegliata col nervoso e il cruccio addosso: ho svogliatamente fatto colazione, mi sono svogliatamente vestita, sono svogliatamente uscita di casa e mi sono svogliatamente diretta a un appuntamento di lavoro molto importante. Sarà forse palese, ma la sua importanza era direttamente proporzionale al mio malumore. Insomma, facevo i capricci. 

Questo incontro comunque si teneva alla Crocetta, un quartiere che fino a un anno fa non avevo mai tenuto molto in considerazione, anche se pure Wikipedia ne parla come di "una delle zone residenziali di maggior prestigio". Prima di un anno fa infatti avevo avuto contatto con quelle vie solo per quattro occorrenze: 

- in uno dei suoi libri mio nonno descriveva con affetto uno di quei corsi, dove con un amico aveva l'abitudine di andare a passeggiare (e io  amavo immaginarlo lì, a camminare e filosofeggiare in compagnia e, chissà perché, coi colori del crepuscolo e dell'autunno); 
- un'amica mi aveva parlato del suo mitologico mercato, dove tra gli oggetti carissimi, se uno aveva occhio, era possibile trovare roba di marca a prezzi stracciati; 
- ero già andata due o tre volte a visitare la Galleria d'Arte Moderna, che vi troneggia quieta, con la scultura di un albero sospeso a mezz'aria davanti alle sue porte; 
- una volta mi ero recata al Circolo della Stampa ad ascoltare un concerto di musica classica mal eseguito (e il fatto che me ne sia accorta io la dice lunga).

Insomma, un anno fa, complice un'amica che aveva iniziato a lavorare alla GAM, mi ero ritrovata a gironzolare lì attorno diverse volte, in attesa dell'orario di chiusura, e avevo deciso che un giorno mi sarei trasferita in via Magenta, della quale mi ero innamorata. In questo frangente non è importante sapere se ce lo si può permettere o meno, ma piuttosto l'aspetto decisionale della cosa. Chiaramente.

Qualche settimana fa, dicevo, sono giunta all'incontro con una nuvola nera addosso e, una volta terminato il fattaccio, eccomi lì, sul marciapiede fuori da un edificio bellissimo, a non sapere granché cosa fare. Era un'ora fessa, di quelle che tagliano a metà la mattinata. Tornare subito a casa e mettersi a lavorare era fuori discussione e così ne ho approfittato per esplorare più a fondo la zona. 

Punto sempre l'attenzione sull'aspetto decisionale, perché è l'unica cosa che mi salva: volevo sì visitare la zona ma, pur avendo camminato in lungo e in largo per un paio d'ore, mi sono accorta a posteriori di non essere forse andata oltre quattro o cinque isolati. Mi sentivo estasiata da tutto, contenta di un sole tiepido dopo giorni di pioggia, mi sentivo Marcovaldo che trova un fungo in mezzo al grigiore urbano, mi sentivo... sul set di Vanilla Sky. In giro non c'era un'anima, ma solo scheletri di villette, alberi nodosi e grigi o dai rami dritti puntati fitti fitti verso il cielo, persiane abbassate. Solo il mercato pullulava di vita, ma in quel contesto aveva l'aria di un alveare in mezzo al deserto. 

Camminavo in mezzo alle vie senza badare a nulla, godendomi l'inconsueta libertà dell'assenza del mondo e del quasi completo silenzio attorno. Nessuna macchina, solo rumori lontani e, ogni tanto, un altro essere umano che, nell'incrocio di sguardi, sembrava essere stato colto sul fatto di esserci, lì e in quel momento, come per errore, come una lepre di fronte ai fari di un'auto. 

Così mi sono scattata una fotografia. Giusto per ricordarmi di esserci ancora anch'io.


lunedì 8 aprile 2013

Se l'avessi trovata stasera


Stephen Graber - Ophelia
Il fiume nero, la notte, scorre anche se sembra non esserci. Un giorno, dalla finestra, abbiamo visto un corpo esangue sulla riva opposta alla nostra. Col sole del mattino che allungava i suoi raggi come fossero dita, il tempo ha fatto compagnia alle lente operazioni di recupero del cadavere. 

Quando la sera porto giù il cane, supero le macchine e rimango sulla stretta striscia di terra che rimane tra i cofani allineati e il guard rail. Guardo la riva sul lato opposto e ripenso sempre a quel giorno. Poi, tra le fioche luci dei lampioni che rischiarano appena i fili d'erba, temo sempre di ritrovare il corpo d'una donna. Esangue, nuda, coi capelli sporchi e scuri. La vedo rischiarare il selciato, riflettere il pallore della luna.

L'ho guardata, stasera, la luna. Era lì, stretta e contrita tra poche nuvole all'apparenza leggere come fumo.

"Se l'avessi trovata stasera", ho pensato, "l'avrei creduta una morte per indifferenza". 

domenica 31 marzo 2013

Paris, senza fine.



Vista dall'Arc de Triomphe, febbraio 2011
Usava il cielo come metro delle proprie emozioni, ruotando la forma degli scarti tra le nuvole per poter creare quello spazio che sentiva mancargli per stipare emozioni e parole. Quel lattiginoso chiarore che avvolgeva sempre la città gli rimaneva impigliato tra le dita come colla, mentre lasciava vagare lo sguardo dalla finestra della piccola stanza in cui alloggiava. Era una stanza fredda, con una poltrona scarna priva di imbottitura in un angolo, un vecchio armadio in legno scricchiolante, un piccolo letto e uno specchio. Riflettervisi era come saltarvi dentro, come aveva fatto Alice, solo che non c’era nessun Lewis e nessun Carroll a disegnare i sentieri che quel viaggio comportava, era un foglio bianco, lattiginoso come il cielo, e a volte era meglio evitare direttamente il confronto, così da non ritrovarsi necessariamente ad affrontare una parte di sé così estranea come il proprio viso. Quel che mi è familiare, si diceva, sono i pensieri. Le mani. O il cielo. La finestra aveva l’esatto contorno di ciò che era pronto ad accettare dentro di sé.

Ho risalito i gradini di Mont Martre con le mani in tasca e l’idea di voltarmi a guardare il panorama solo giunta in cima, ma non sono riuscita. È come se il completare i miei propositi potesse in qualche modo urtarmi. Così, quando mancavano due gradini alle porte della basilica, mi son voltata: sulla città un’immensa ombra bianca di foschia mattutina.
Le sette del mattino. Nessun turista a scattare foto a ripetizione, a chiedere al vicino che fine abbia fatto la Tour Eiffel, a scartare un panino. Io e la foschia, le porte chiuse della Basilica del Sacro cuore alle mie spalle.
Mi lacrimano gli occhi, mi siedo.
Siamo a novembre inoltrato e son passati solo due mesi da quando sono arrivata in questa città. I suoi palazzi alti e ordinati, perfetti e puliti, mi han dato presto l’impressione di un posto meno accogliente di quanto immaginassi.
Nonostante questo ho trovato lavoro piuttosto in fretta: faccio la cameriera in un piccolo bar in Rue Mouffetard, non troppo lontano dalla Moschea. La clientela è composta per lo più da turisti, di abituali ve n’è ben pochi.
Fuori dal lavoro non ho conosciuto nessuno. Mi sento un automa: guardo le persone chiedendomi mille cose sul loro conto, ma le mie conversazioni si limitano al prendere gli ordini. A volte mi sorprendo a chiedermi come facciano gli altri a muoversi con così tanta naturalezza, a sorridere, a crederci, a conversare e interessarsi. Ricordo che un tempo la mia vita era simile alla loro, mi veniva automatico, non era un interrogativo da pormi. Forse sono più umana, adesso?
Il cielo si fa più chiaro e limpido. Mi alzo con calma, ridiscendo le strade costeggiando le vigne della collina, dietro al museo di Montmartre.
Incrocio due ragazzi, hanno le mani in tasca e una lunga sciarpa che lega i loro colli, li unisce in un vincolo caldo fatto di stoffa. Li annoda, li strozza.

Come vi era finito, lì, non avrebbe saputo dirlo. A volte la vita ti porta esattamente dove devi essere nel momento esatto in cui devi trovartici, la persona giusta al momento giusto, sì? No, figuriamoci se era il suo caso. Se lo era, non se n’era manco accorto. Un problema logistico o emozionale, va a capire. 
  
Un vecchio racconto, mai finito. Mi interrompo sempre un attimo prima dell'incontro. 

giovedì 28 febbraio 2013

Sogni

Il mio mondo onirico è sempre talmente vivido, presente e ricco che nei periodi in cui non sogno - o comunque non ricordo cosa ho sognato, che è un po' la stessa cosa - so che c'è qualcosa che non va.
In questi giorni invece no: il carosello continuo di immagini e conversazioni ha ripreso.

Beneath the Surface: Fish, di Erik Johansson
Eppure le sensazioni, i colori, i visi sono completamente mutati. Se prima ero ben consapevole di un'atmosfera a metà tra il grottesco e il surrealismo, con case labirintiche, alberi dalla chioma a palloncino e presenze quasi inquietanti per il grado di stranezza con cui si presentavano (per cui comunque provavo quell'affezione che chiunque sente per una parte di se stesso), ora sembra essersi insinuata una sfumatura piuttosto dolce, ma forse troppo reale.

Ieri sostenevo una conversazione con un ragazzo, ma priva di parole. Era più una questione di suoni, sguardi e sorrisi ironici e un po' salaci. Poi mi dava un libro che accettavo con diffidenza e, mentre si allontanava, vi trovavo dentro un biglietto, scritto con grafia perfetta e ordinata. Una cosa talmente dolce che non ho fatto in tempo a leggerla che mi sono svegliata.

Stanotte invece, per la seconda volta, ho sognato di dover dire una cosa a mia nonna. Ero estremamente felice, ma poi mi ricordavo che è mancata. Di recente, pensavo. Poi subito: No, sono trascorsi già tre anni. Recente è il mio dolore. Poi ecco, il paradosso: come fa a non esserci più, se ne sento così forte la presenza? Poi mi sveglio, e non mi sembra vero niente.


lunedì 18 febbraio 2013

La parola meravigliosa

Ero seduta sulla bellissima panca in legno che mio nonno aveva di fronte alla porta dello studio in cui visitava i suoi pazienti. Mi piaceva gironzolare lì intorno: parlavo con le persone in attesa, studiavo le ombre che si formavano sui piccoli prismi che componevano il vetro della porta e mi inventavo storie per ogni pezzo di mobilio. 

Le gambe penzoloni con i piedi che non arrivavano al pavimento, quel giorno lo aspettavo con impazienza perché temevo che mi sarei persa nei miei pensieri, mi sarei distratta e avrei potuto dimenticare ciò che volevo dirgli. Misi persino da parte il martelletto con cui nel frattempo stavo tentando, con scarso successo, di testare i riflessi patellari. Dovevo mantenere la concentrazione su quell'unica parola, quella bellissima parola che avevo scoperto quel giorno, e per questo la ripetevo come un mantra a bassa voce, perché nessun altro potesse sentirla: era una scoperta sensazionale e sicuramente avrei dovuto poi informare tutti, ma volevo che la sentisse lui per primo. Come poteva la maestra conoscere una parola così bella? E poi, cos'è che voleva dire, già?

Quando sentii il rumore delle sedie che si scostavano dal tavolo e le ombre farsi più alte, oltre la porta, incominciai a fremere. Il momento era giunto. Sorrisi alla signora che usciva, aspettai con ben poca compostezza che si allontanasse, e poi quasi urlai: "Oggi a scuola ho imparato una parola bellissima, nonno!" "Davvero? Quale parola?". Silenzio. Non me la ricordavo più, il vuoto. Dovetti aspettare che finisse la visita successiva, per dirgliela. Dopo aver sfogliato tutti i miei libri, ecco che l'avevo ritrovata: Eruli. 

"È il nome di un antico popolo germanico", mi spiegò. Lui, chiaramente, la conosceva già. Mi sembrò incredibile e inconcepibile: chissà perché, mi domandai allora, i grandi conoscono un sacco di parole meravigliose, ma non le usano mai.

sabato 1 dicembre 2012

L'orpello

Qualche giorno fa ho partecipato a questo concorso qui
Il tema era "La festa" e bisognava "rivestire" l'eroe scelto ispirandosi a uno dei passaggi proposti. Io ho scelto questo:


Emma si comperò un inginocchiatoi gotico; spese in un mese quattordici franchi in limoni per pulirsi le unghie; scrisse a Rouen per avere un vestito in casimiro azzurro; scelse da Lheureux la più bella sciarpa ch'egli aveva; se l'annodava alla vita, sopra la vestaglia, e, così vestita, rimaneva distesa su un divano con un libro in mano e le persiane chiuse.

Spesso cambiava di pettinatura; s'acconciava ora alla cinese, ora con riccioli sciolti, ora con le trecce; si fece una riga da un lato e avvolse i capelli al disotto, come un uomo.

da Madame Bovary, di Gustave Flaubert. Traduzione di Giuseppe Achille.    

E così ho proseguito...


Erano come prove generali ad un grande spettacolo di cui lei era l'unica e impareggiabile protagonista e, come tale, sentiva l'obbligo morale di tendere alla perfezione, così da poter offrire ai propri spettatori l'opportunità di sentirsi di nuovo mortali nella loro mediocrità. Occasione del suo debutto ufficiale in queste vesti sarebbe stata la festa che si sarebbe tenuta di lì ad un mese presso la casa del sindaco, uomo abbiente per professione ma amante dell'opulenza per inclinazione. All'evento avrebbero partecipato tutti quelli che godevano di una qualche importanza a livello sociale, per lo meno a quanto sembrava suggerire l'invito, scritto con grafia impeccabile e ricercata eleganza, e l'insistenza con la quale Françoise, la sua amica, continuava ad affermare che "sì, deve esserci stato sicuramente un qualche disguido all'ufficio postale, se a me l'invito non è ancora arrivato", proseguendo poi per filo e per segno ad elencare, quasi in ordine cronologico, tutte le persone nella sua cerchia che già potevano iniziare con diletto a prepararsi all'occasione.

Rigirando tra le dita quel passepartout tanto prezioso, Emma seguitava a far parlare Françoise con studiata indifferenza, quella che si riserva alla musica d’anticamera. La sciarpa turchese potrebbe andare? Magari sopra al vestito nero di quel sarto bravissimo, che mi calza come un guanto. Ad un osservatore attento non sarebbero sfuggiti tutti quei colori e quei capi che sembravano sfilare di fronte ai suoi occhi assenti, ma Françoise non era né osservatrice, né men che meno attenta. 

"Dunque, ho concluso il discorso intimando alla cugina di Jean-David che se l'indomani non avesse chiesto a sua zia una risposta, avrebbe potuto benissimo dimenticarsi i tè del mercoledì. Velatamente, s'intende - una signora non dovrebbe mai dar prova di una simile malagrazia. Ne convieni?", seguitava Françoise, mentre Emma, annuendo, passava mentalmente in rassegna i preziosi. 
Indosserò quelli a goccia, eleganti ma seducenti, che coi capelli raccolti in uno chignon e il ciondolo che mi ha regalato Maman si abbinano come uno stelo alla foglia.

Continuò così per un’altra ora, e per un giorno ancora, poi due, fino a sommarne altri tre ed arrivare ad una settimana, un mese e così via. Il giorno della festa arrivò in un’umida sera d’agosto ed Emma sembrava davvero risplendere di luce propria. Morbidamente avvolta in un vestito nero dalle maniche ampie e la scollatura non troppo generosa, con orecchini a goccia e, una volta toltasi la leggera sciarpa turchese, lo sterno nudo (Niente ciondolo:  la pelle nuda si presta meglio ad accogliere gli sguardi), fece il suo ingresso nell’ampio salone. Si voltarono tutti, ma altrettanto in fretta ripresero le proprie conversazioni. Perché Emma aveva dimenticato l’unico orpello di cui, in circostanze come questa, una donna che volesse far rispettare il proprio buon nome e apparir perbene non poteva fare a meno: il marito.

lunedì 29 ottobre 2012

Acquario


Il vestito bianco le sta troppo stretto, è troppo corto. E quei tacchi sono troppo alti, la punta delle scarpe troppo lunga, sgualcita. Cammina come se avesse scricchiolanti dolori alle caviglie, la schiena curva. L'apparenza di un oggetto ingombrante che respira e che in virtù di questo ha la facoltà di tentare di nascondersi. Ha tutto ciò che in questo luogo non si dovrebbe portare, scomodità e paura.

Dall'esterno sembra una macelleria, ma invece di corpi nudi d'animale squartati e appesi, vi sono quadri di sangue che invitano ad entrare, macabri e informi. I pavimenti sono puliti, li ho lustrati io stesso. Controllo sempre che all'entrata le persone abbiano scarpe pulite e asciutte e per quanto mi si sia già intimato di smettere, continuo furtivamente a compiere questo piccolo rito: li guardo sorridendo ampiamente, poi - torvo - chiedo loro scherzosamente se han le suole pulite, ché dentro è uno specchio e tale deve rimanere. Ridono, la prendono per una battuta, ma per stare a questa sorta di gioco quasi mi mostrano la loro innocenza alzando di poco le suole e - per non rischiare eventuali sorprese, controllano furtivamente poco dopo.

La seguo con lo sguardo, segue la lunga fila che dall'entrata si sparpaglia nelle varie stanze ed entra in quella che puzza di pesce. La Marina, si chiama. Finemente arredata in blu, luci soffuse, pesci di cartapesta appesi al soffitto al cui interno sono state poste tante piccole lampadine che, filtrando luce dalle branchie ben intagliate, creano effetti luminosi diversi e lineari sulle pareti. Ondeggiano, spesso toccati per pura curiosità dal pubblico (effetto voluto dagli organizzatori, che li han posti alla giusta distanza per essere raggiunti da un braccio teso), creando con le stesse luci l'atmosfera che si può ipotizzare sotto la superficie del mare. Ci sono divani a forma di coda di sirena, corridoi tappezzati d'alghe calpestabili e poltrone a conchiglia. Chi vi entra si disperde facilmente, è uno spazio enorme e spesso nauseante, a mio avviso. I fidanzatini si tengono sempre per mano, avanzano prendendosi in giro boccheggiando allegri, gonfiando le guance, strabuzzando gli occhi. È svilente, quello che possono fare, umanizzando ogni altra forma animale. Del resto a tutti insegnano, fin da piccoli, ad imitare per apprendere. L'imitazione poi prende la mano e comincia ad essere utilizzata anche per gli scopi più tragici, come divertire. 

Lei si è tolta le scarpe all'entrata, evitando così di farsi seguire da una scia di ticchettii salmastri. L'ho persa di vista in fretta, tra le tante teste. Continuo a sorridere, a guardare di soppiatto chi entra, a controllare le scarpe. Mi passa quasi di mente quando la vedo tornare, gli occhi a bulbo e i capelli sconvolti da chissà quale marea. È troppo bruna, troppo tornita, troppo storta sulle ginocchia aguzze. Deve aver perso una delle due scarpe, ne ha solo più una in mano, che intravedo a distanza vagamente umida, gocciolante forse. Deve aver raggiunto come minimo l'acquario. Si guarda intorno appoggiandosi ad una parete, si china guardando fisso alla sua destra e poggia la scarpa in un angolo, e mentre si rialza si ravviva i capelli, cercando di guadagnare un'aria disinvolta. Incrocia il mio sguardo, che distolgo. 

Quando mi rigiro, però, è scomparsa.


giovedì 25 ottobre 2012

Dalla vetta del mondo

Dalla vetta del mondo, o comunque da un punto molto, molto alto nel cielo, rispetto a quello a cui normalmente si è avvezzi. 

Alle volte ho come l’impressione non ci sia un senso, in questa gabbia di vetro che gentilmente mi tiene sospeso lì dove i gabbiani si mantengono immobili, figurine ritagliate nel cielo. Le finestre sono finte, non è visibile l’orizzonte e non riesco, davvero non riesco, a non pensare al fatto che non sono nato, io, perché i miei piedi arrivassero quassù. 

A dirla tutta, non sono nato per molte cose e forse è tutto uno strano gioco che non capisco, che son talmente stanco da non riuscire neppure lontanamente a comprendere. Sono talmente stanco da arrivare ad odiare la strana abitudine per la quale finisco sempre a pormi interrogativi sul senso delle cose, come se per forza dovessero averne uno, come se tutto ne avesse dovuto avere per nascere. A priori. Li posso immaginare, gli schizzi dei progetti per un fiore: “troppo rosso? Troppo pendulo? Gambo troppo lungo? Troppo corto? Così non va, così non va... Sicché bisogna rifare tutto, tutto daccapo!”.

Prima è arrivata Kerin, qui nel mio ufficio. Non ha bussato, ma neppure ha fatto qualsiasi altro genere di rumore. Mi sono accorto di lei per un cambiamento nei riflessi di luce nella stanza o per un impercettibile moto d’aria che si è fatto spazio. Non saprei. Fatto sta che me la sono ritrovata lì, gonfia e abbondante come sa esserlo solo una persona che non ha più la pazienza di rigirare ancora un poco, sulla lingua, le proprie parole; è quasi esplosa, poi, gridando: “Volevo dirtelo, sei tra i primi. Io e Ben abbiamo deciso di avere un bambino”.

Non so quale demone del cielo possa aver guidato le mie espressioni, da quel punto in poi, ma so per certo che non ricordo d’aver notato in lei alcun atteggiamento che potesse rivelare che avesse inteso quanto il suo dire mi avesse, in una qualche misura, stordito. Forse erano solo una manciata i minuti che intercorsero da quel momento a quello successivo che ho ben chiaro in testa: le 15.33. I numeri, quei numeri. Quei numeri li ho guardati con certo sguardo obliquo, perché parevano parlare: “Quindi ci trentatré” che, per scarto, si trasformava in “Quindi ci tentate”. 

Sì, “quindi ci tentate, tu e Ben. Bene. Ben e.” Insomma, ammattivo. Non erano lei e Ben, non era quel bambino in crescita dentro un futuro ancora incompiuto, era la premeditazione, quello che sta tra la scelta e il cielo – l’inaspettato, l’inconcluso – ciò che stava già, lo sentivo, iniziando a perseguitarmi. 

Foto: Tom Ryaboi/Wenn.com


martedì 23 ottobre 2012

Un palindromo


Il posto è buio, illuminato solo da qualche tenue luce blu che proviene dal palco. 
Lei rimane lì, appoggiata al muro, un bicchiere in mano da cui raramente coglie qualche sorso per passare il tempo riflettendo sulla differenza tra i plurali di Osso, lo sguardo perso verso un punto generalmente appropriato.
Non c’è musica, non c’è luce, non c’è niente. Solo quelle quattro lettere in croce che, rigirate su sé stesse, tornano ad essere propria immagine riflessa. Osso. E poi quell’anomalia della lingua: Ossi, Ossa.
La infastidisce terribilmente, troppe esse, poco attrito, poche ragioni.
Così si gira verso il tipo che ha accanto.

“La mia testa non funziona più”, gli ha spiegato. “Non riesco più a focalizzare. C’è..”

“Come?”, le ha fatto lui, scuotendo la testa di un soffio.

“Dicevo..”, ha alzato la voce, “C’è questa parola che..”

“Non ti sento!”

“OSSO!”, ha gridato. Meglio partire dal fulcro della questione, si è detta.

“POSSO COSA?”

È in quel momento che se ne è accorta. Si muoveva a tempo, lui si muoveva a tempo. C’era musica, c’era luce, c’era il mondo lì, attorno. Gente. Persone. Tutti pieni di braccia, bracci, dita, diti, ossa, ossi.  Ballavano. Tutti. Muovevano tutte quelle cose ed era tutto così: scomposto, aggressivo. 
Gli ha passato il bicchiere e si è diretta verso l’uscita, facendosi largo tra i corpi. Lui le ha urlato dietro qualcosa di poco carino, dato fondo al drink e buttato il bicchiere a terra.

Ha dimenticato la giacca, tornando a casa infreddolita. Si è preparata un tè che ha lasciato lì a raffreddare per la mattina dopo. Poi ha preso un libro, l’ha sfogliato brevemente e si è accigliata un istante, sussurrando meccanicamente:
Ossi se presi separatamente; ossa come insieme dell’ossatura umana.
Poi se ne è andata a dormire.

lunedì 24 settembre 2012

Anno dopo anno


Guardavo le file d’alberi sfilare oltre la grande vetrata dello scompartimento, il cielo vuoto e brillante che ne riempiva una gran parte. Respiravo piano, con meticolosa attenzione, quanta più aria potevo, ma era così calda e pesante che, invece d’essermi d’aiuto, non faceva altro che gonfiare ed esasperare la mia ansia.

L’idea di rivedere il mio paese dopo venticinque anni mi spezzava morbidamente in due: la donna che ero, le aspettative di un tempo, la dolcezza che ogni cosa può assumere a distanza di anni ma che la ragione inneggia a non trasformare in illusione. Pensavo ai miei genitori, ai loro visi, alle loro voci alterate e rotte nel giorno in cui me ne ero andata di prepotenza, orgogliosa e arrabbiata.
Tutto mi si agitava nello stomaco, insieme al più recente suono delle loro parole al telefono. Mi sentivo d’un colpo ragazzina, spaurita, insicura. Ogni cespuglio, ogni chiazza di verde o tetto, strada o uccello oltre a quel finestrino sembrava un appiglio a cui potersi aggrappare, se non con le mani, almeno col pensiero.

Calda, aria calda, tutto caldo intorno a me. La stazione piccola, deserta, desolata, era esattamente come la ricordavo. Mi sistemai meglio la tracolla della borsa, presi la valigia e mi incamminai verso l’uscita. Nei momenti in cui il cuore non sembra battere ma traballare in petto, sensibile alla violenta emozione che sente prossima, vi sono sempre insignificanti dettagli pronti a creare apprensione e disagio: i capelli impigliati nella vite degli occhiali, la calza ripiegata un po’ storta nella scarpa, il sudore che imperla la fronte. 

Cercavo di pensarci il più possibile un passo dopo l’altro (prima il sottopasso, poi le scale, l’atrio inesistente e il piazzale antistante scintillante di sole); cercavo di pensarci e di sfuggire quell’ansia montante (calza, sudore, capelli). Poi mi sono fermata (calza, sudore, capelli), mi sono guardata attorno (capelli, sudore, calza), e poi (ripetendo il mantra sempre più velocemente) li ho visti (mi è scivolata la valigia dalla mano sudata e, chinandomi d’istinto per riprenderla, gli occhiali l’hanno seguita a ruota, rimanendo sospesi a mezz’aria, attaccati ai capelli). 

I miei genitori erano lì, più minuti di quanto ricordassi, bonariamente sorridenti, entrambi con gli occhi lucidi e i segni dell’aridità del tempo a disegnarne il viso. 
Rimanevano i miei genitori e venticinque anni di rancore, orgoglio e silenzio mai mi erano sembrati più palesemente insulsi e infantili come in quel momento.

Ci abbracciammo, piangemmo, sorridemmo nel medesimo istante. Le parole, dapprima timide, cominciarono ad essere veloci, incalzandosi.

Furono giorni intensi come ne ricordo pochi altri; furono giorni importanti, perché da allora ho ricominciato a parlare con loro e ad andare a trovarli con regolarità. Oggi sono madre anche io e molte cose le vedo diversamente.

Quello  che ora mi è più chiaro è che l’amore delle persone che ti hanno cresciuta non soffre d’orgoglio o di prese di posizione. Può averne, ma non sono estreme, né eterne. Me ne accorgo quando guardo mia figlia, o quando ripenso all’ultimo giorno di quella prima visita: di nuovo alla stazione, mia madre mi mise in mano un involto prima che salissi sul treno. “Che cos’è?” “Quello che non ti abbiamo raccontato di questi anni passati”. Dentro vi trovai venticinque diversi piccoli oggetti e altrettanti biglietti ad accompagnarli, scritti in anni diversi ma con le stesse identiche parole: “Ti vogliamo bene, buon compleanno”. 
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