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lunedì 8 febbraio 2016

Lost in Translation, di Ella Frances Sanders

Un libro delizioso, Lost in Translation, volume ad opera di Ella Frances Sanders uscito per quelli della Marcos y Marcos. Delizioso soprattutto per chi, come me, ama le parole e ciò che queste sono capaci di creare nella realtà immaginifica di ognuno di noi. Di fatto, l’autrice ha raccolto 50 parole di lingue diverse, dal significato spesso unico e intraducibile, e le ha spiegate attraverso un’illustrazione. Un lavoro di ricerca, il suo, che l’ha portata in tutto il mondo, dalla Germania alla Svezia passando per Corea, Caraibi e Giappone, fino ad arrivare alle Hawaii o in Australia e in altri paesi ancora, tra idiomi più o meno noti, come il wagiman o lo yaghan.

Il resto qui.

lunedì 4 gennaio 2016

Sei un traduttore, un attore o un impostore?

Stavo ascoltando oggi l’ultima puntata del 2015 del New York Times Book Review, la rassegna tenuta da Pamela Paul sul mondo della letteratura. Interveniva in quest’occasione Heather Havrilevsky per parlare dell’ultimo libro di Amy Cuddy: “Presence. Bringing Your Boldest Self to Your Biggest Challenges”. Un discorso interessante, quello di Amy Cuddy, perché partito dalla sindrome dell’impostore, ovvero la convinzione di non meritare i successi ottenuti e la conseguente tendenza ad attribuire i propri meriti ad agenti esterni. Si tratta di un fenomeno molto frequente soprattutto in ambiti accademici. Su di me esercita un fascino particolare perché ne ho sofferto a lungo, almeno per tutto il periodo in cui ho frequentato il master in traduzione e oltre, anche nei primi anni della mia attività.

A soffrirne in prima persona è stata anche Amy Cuddy, oggi psicologa e professoressa ad Harvard, che racconta di aver ricevuto un valido consiglio, ovvero di comportarsi come la persona che gli altri si aspettavano fosse finché non si fosse sentita effettivamente quella persona. Un bel giro di parole, vero?

In uno dei primi giorni del master mi sentivo talmente fuori posto che andai a chiedere a una professoressa di darmi degli esercizi in più per mettermi al pari con gli altri. Anche se per accedere avevamo tutti superato il medesimo esame, io mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Una notte avevo addirittura sognato di confessare a un’amica che mi avrebbero scoperta a breve. 

Amy Cuddy ha cominciato a chiedersi: che differenza c’è tra la scelta di assumere un determinato comportamento e il sentire tale comportamento come proprio? Esternamente, nulla: sfruttando il linguaggio del corpo (e la comunicazione) a proprio vantaggio, è possibile fare in modo che gli altri non percepiscano la nostra insicurezza ma che, anzi, traggano un’impressione del tutto contraria del nostro stato d’animo. Insomma, ai loro occhi potremmo risultare sicuri di noi stessi, decisi, assertivi. Ma sarebbe solo una recita?

Ciò che Amy Cuddy sostiene è che la propria presenza corporea può di per se stessa innescare una memoria emotiva. Quindi non sarebbe più il sentimento a influenzare il corpo, ma il corpo a influenzare il sentimento, rendendo infine autentico l’atteggiamento adottato. Ne aveva già parlato in occasione del suo intervento ai TEDTalks nel 2012, dove spiegava che assumere una postura di “potere” prima di un colloquio di lavoro, ad esempio ammirarsi per dieci minuti allo specchio con le mani sui fianchi a mo’ di Superman, avrebbe reso il candidato più sicuro di sé e brillante perché influenzato dal suo stesso atteggiamento non verbale.

Quindi no, in ultimo non sarebbe una recita; tuttavia l’idea della Cuddy era già stata introdotta in ambito teatrale da Stanislavskij, secondo il quale per rievocare una determinata emozione l’attore doveva compiere il gesto a cui lei/lui intimamente la abbinava. In soldoni: se ogni volta che sono felice mi tocco l’orecchio, toccarmi l’orecchio può verosimilmente ricordarmi cosa significa essere felice e, di conseguenza, determinare in me una sensazione di felicità. Ricorrendo a questa dinamica, l’attore può rendere più realistica la sua interpretazione. Piccola nota, fuori tema ma non troppo: se non l’avete letto, qui trovate un bellissimo articolo su traduzione e teatro scritto da Giulia Baselica.

Tutto questo è applicabile anche al mondo della traduzione? Tempo fa un’agenzia di traduzioni aveva scritto un post in cui consigliava ai traduttori alle prime armi di accettare lavori in ambiti nuovi pur non essendo del tutto padroni dell’argomento trattato. L’idea era che inizialmente avrebbero incontrato molte difficoltà e avrebbero dovuto fare il triplo della fatica, ma col tempo e con molto impegno alla fine avrebbero acquisito quelle stesse competenze che erano state loro richieste sin dall’inizio. Molti traduttori nei commenti avevano criticato il consiglio, ma io non l’ho trovato del tutto sbagliato.

Dopo aver terminato il master a pieni voti ho iniziato a ricevere richieste da diversi clienti ma, come dicevo prima, almeno per un paio d’anni non ho smesso di sentirmi un’impostora. L’atteggiamento di cui parla Amy Cuddy l’ho adottato nella comunicazione, ad esempio nelle e-mail, dove cercavo di non far trapelare la mia insicurezza. Eppure la verità è che, ancora oggi, ogni richiesta è una sfida nuova, non c’è mai un lavoro facile, non c’è un momento in cui sai tutto o un testo per cui non ti debba documentare. Quindi non ho detto sempre sì, ma se avessi dovuto accettare solo di tradurre documenti relativi a un argomento di cui mi sentivo totalmente padrona o per cui mi sentivo sicura, non avrei mai lavorato come traduttrice.

Il mondo della traduzione è particolarmente difficile perché non ci sarà mai ambito privo di segreti per nessuno. Se quindi è vero che lanciarsi in settori sconosciuti può essere rischioso (tanto per il traduttore quanto per il cliente che sceglie di affidargli il lavoro), lo è altrettanto il fatto che per imparare bisogna mettersi in gioco e da qualche parte bisogna iniziare. Siamo tutti fallibili; il resto è tutta questione di buon senso.

giovedì 3 dicembre 2015

Repertorio dei matti della città di Torino, a cura di Paolo Nori




Lo dico subito, così non ne parliamo più o possiamo invece parlarne meglio: Repertorio dei matti della città di Torino(Marcos y Marcos) è un libro molto piacevole, mi ha fatta ridere svariate volte e ne ho inviati dei pezzettini agli amici. Perché di questo si compone: pezzettini, paragrafetti sui matti da leggere qui e là, da sbocconcellare come piccoli pezzi di pane lasciati da un Pollicino  che ha avuto un’idea ispirata dal Repertorio dei pazzi della città di Palermo di Roberto Alajmo (Mondadori) e racconta: “ho immaginato che si sarebbe potuto fare un corso di scrittura, non so come dire, senza sentimento, perché il repertorio dei pazzi mi sembra vada scritto come l’ha scritto Alajmo, ...

Il resto qui.

lunedì 9 novembre 2015

Una casa sul mare del Nord, di Nina George

«Sarei affondata volentieri nelle sue acque», disse Marianne piano. «Avrebbero coperto tutto, mi avrebbero sommerso per poi ritirarsi, dimenticandomi. Ho cercato la morte».
«E poi?» chiese Pascale angosciata.
«Poi mi è capitata la vita».

Quanto si può essere stanchi della propria vita o di se stessi? Marianne, la protagonista del nuovo romanzo di Nina George, Una casa sul mare del Nord (Sperling & Kupfer, trad. di Cristina Proto) lo è tanto, talmente tanto che l’unica soluzione che ritiene possibile per tirarsi fuori dai giochi e liberarsi di quel pesante fardello che le pesa sulle spalle è il suicidio. E proprio un attimo prima di lasciarsi cadere nelle fredde acque della Senna, Marianne “Non si era mai sentita così leggera. Così libera. Così felice”. Perché il fatto è che non ha atteso di avere sessant’anni per buttarsi giù da un ponte di Parigi e morire. Lei è già morta, giorno dopo giorno, per decenni. Quel tuffo, per lei che di decisioni per se stessa, nella vita, non ne ha prese mai, è un grido di rinascita, di lotta, di speranza. È anche un grido che, grazie a un uomo che prontamente interviene, non rimarrà soffocato dalle correnti della Senna…

La recensione continua qui.

venerdì 16 ottobre 2015

Il ritorno del pendolo, di Bauman e Dessal

Tra Zygmunt Bauman e Gustavo Dessal, pensatore di fama mondiale il primo e psicoanalista il secondo, il dialogo è serrato e complesso, nonché di estremo interesse. Un dialogo, il loro, che ha dato corpo a un saggio, Il ritorno del pendolo – Psicoanalisi e futuro del mondo liquido (Edizioni Erickson, con traduzione di Riccardo Mazzeo) dove, seguendo esattamente un’oscillazione che delinea un movimento tra le due voci, si muovono le fila dei loro pensieri sul mondo e la società.
Il la che dà il via a questo scambio è Freud e il suo Il disagio della civiltà, la cui attualità, come ricorda subito Dessal: “non solo continua a essere inalterata, ma […] getta n...Continua qui.

giovedì 8 ottobre 2015

Il paradiso degli orchi, di Daniel Pennac

Lo scrivo con titubanza perché è un’ammissione in piena regola: non avevo mai letto Pennac. Per motivi stupidi, ammetto anche questo. Anni fa qualcuno, parlandomene, lo aveva definito il Benni francese, e a me, che adoro Benni, non era andata giù.  Quest’anno però Il paradiso degli orchi si è insinuato in casa per mano di un amico, iniziando dapprima a farsi strada nel mio immaginario con quei tre orchi e il cane in copertina e catturandomi infine quando, qualche giorno fa, avevo bisogno di una lettura da portare con me. Così, mentre la folla dell’autobus mi carpiva in quella calca di corpi dell’ora di punta, Pennac lo faceva col suo velo da sposa. Ve lo ricordate? Il romanzo inizia così: “La voce femminile si diffonde dall’altoparlante, leggera e piena di promesse come un velo da sposa”. Una mancanza di peso così esatta a cui è difficile opporsi (un grazie doveroso alla traduttrice, Yasmina Melaouah), una leggerezza del linguaggio che mi ricordava in qualche modo il Calvino delle lezioni americane, perché il mondo di Pennac non aveva affatto l’impressione d’essere di pietra.
E di fatto Pennac non diventa di pietra mai: ...
Continua qui.

mercoledì 5 agosto 2015

La piccola Battaglia portatile, di Paolo Nori

Questo libro m’ha commossa. Sarà che parla di padre e figlie e contorni di umanità e trasuda un po’ tanto amore, nelle sue pagine, mi ha commossa. C’è Battaglia, che è una bambina sveglia come tanti bambini, e poi c’è il padre della Battaglia, che è sveglio anche lui a suo modo ma lui per primo dice di non sapere niente: “Anche se, a dire il vero, quella di cui provo a parlare in questo libro non è esattamente mia figlia, cioè mia figlia è poi un’altra cosa, e io , anch’io non sono esattamente io, io sono il babbo della Battaglia, per quello, non so bene cosa sono, che spazio occupo, da che parte sto, a cosa servo, quanti anni dimostro, da dove vengo, quando mi sono incontrato per la prima volta, non so neanche esattamente come mi chiamo…”.

Continua QUI.

martedì 2 giugno 2015

venerdì 8 maggio 2015

Manuale di solitudine, di Giampaolo Rugarli

Il piacere che Rugarli ci regala in questo atipico romanzo noir è il dubbio che si insinua tra gli opposti e l’incertezza, ovvero una continua riflessione sugli equilibri precari tra l’inespugnabile e la fragilità, la paura della solitudine e il rifiuto di abbandonarvisi, l’incalzare della morte e il desiderio di sopravviverle, tra la fantasia, i sogni e la realtà.

Per la recensione completa: 
Manuale di solitudine, di Giampaolo Rugarli

lunedì 1 settembre 2014

Ian McEwan: “Sono pochi i romanzi che meritano di essere lunghi”

Ian McEwan, acclamato scrittore inglese, lo afferma con sicurezza: “molti romanzi sono troppo lunghi”, esternando poi la sua predilezione per quelli più brevi, che si possono leggere tutti d’un fiato, come se si stesse assistendo a un film, a un’opera o a una commedia teatrale. “Sono pochi i romanzi che meritano di essere lunghi”. 
Per l'articolo completo: 
Ian McEwan: “Sono pochi i romanzi che meritano di essere lunghi”

lunedì 23 giugno 2014

Vronsky was making love to Anna

Vronsky was making love to Anna.
Emma read the sentence again, distracted by the pillar of a woman behind her. Did Tolstoy really mean making love? She couldn't think so. Having sex? It would be so bald written on the page like that. Surely they can't have been making love here and there like this in the nineteenth century. It must refer to something else, something more benign. She flushed, a little guiltily. Not that having sex wasn't benign - of course it was, it led to babies, after all. Though the things that she and Will had begun to do in the dark had nothing whatsoever to do with babies. But Anna and Vronsky? They had been constrained, wasn't that the idea? Perhaps it was the translation. She flipped to the cover of the book and read the name beneath Tolstoy's - Constance Garnett. Emma thought she understood. Vronsky had whispered something loving to Anna, or soothed Anna lovingly, or something like that, and Miss Garnett had used other words instead, painting what ought to be a pink scene - scarlet. Probably a spinster; the pathetic type who reads passion into the twist of a shut umbrella.

Tratto da The postmistress, di Sarah Blake.

giovedì 27 febbraio 2014

Arte e rivoluzione secondo Paul Auster

Una volta pensavo che l'arte dovesse essere... separata dalla società... Una volta sognavo di vivere dando le spalle al mondo. Ora capisco che è impossibile. Anche la società va affrontata, non nella purezza della contemplazione, ma con l'intento di agire. Ma l'azione, quando nasce da un'etica, spesso spaventa la gente... perché non sembra avere una corrispondenza biunivoca con le sue intenzioni. La gente pensa in modo troppo letterale... non riesce a ragionare in termini di metafore. Poiché le tattiche politiche della sinistra non rispettano quella corrispondenza biunivoca (ad esempio, l'occupazione delle sedi universitarie), la gente, che è confusa e spaventata, teme complotti o trame sinistre...
La rivoluzione sociale deve essere accompagnata da una rivoluzione metafisica. Bisogna liberare non solo le esistenze fisiche, ma anche le menti. In caso contrario, ogni conquista di libertà sarà necessariamente illusoria & passeggera. Bisogna creare armi che permettano di ottenere e conservare la libertà. Per fare questo è necessario guardare con coraggio verso l'ignoto, verso il trasformarsi della vita... L'ARTE DEVE BUSSARE CON VIOLENZA ALLE PORTE DELL'ETERNITÀ... 
 Paul Auster, Notizie dall'interno, traduzione di Monica Pareschi
 L'ho recensito qui.

lunedì 30 dicembre 2013

Se leggi a Capodanno, leggi tutto l'anno

Ad aprile m'ero ripromessa di "non iniziare libri nuovi, visto che ne avevo almeno una ventina in sospeso". Volevo fare un'eccezione giusto con "L'artista della sparizione", ma potete ben immaginare come sia andata a finire: ho ignorato bellamente e con molta gioia il mio proposito. 
C'è poi da dire che da qualche anno a questa parte leggo sempre in parallelo due o tre libri, ognuno in un momento diverso della giornata, in base all'umore o al suono che voglio sentire nelle orecchie, perciò già si preannunciava una battaglia persa in partenza: se un tempo non mi concedevo mai di abbandonare una lettura, ora non ho ordine alcuno e mi lascio guidare per lo più solo dal capriccio (e, a volte, quasi da una necessità - e lo dico a ragion di causa, ora che mi accompagnano le parole che Monica Pareschi ha ripreso da Paul Auster in "Notizie dall'interno").

Oggi volevo fare un po' come Riru, fare qualche lista sull'anno appena trascorso, ma poi invece che ai miei noiosissimi spostamenti (per lo più Torino-Potenza-Nizza e poche, minuscole deviazioni), mi sono messa a pensare ai libri. Come contarli? 

Potrei dire quanti ne ho letti durante l'anno? Pressappoco 65. Quante letture ho lasciato in sospeso? 19. Quante ne sto portando avanti al momento? Quattro - mi accompagneranno nel nuovo anno e sono:

- il già citato "Notizie dall'interno" di Paul Auster, tradotto da Monica Pareschi - è con me ogni mattina a colazione e durante qualche pausa nel corso della giornata;

- "La luna e sei soldi", di Somerset Maugham, tradotto da Elisa Morpurgo - ci incontriamo la sera, quando ho almeno un'ora da dedicarci, ché la prosa di Maugham mi chiede sempre qualche attimo in più;

- "Lezioni di francese", di Peter Mayle, tradotto da Serena Lauzi - solitamente viene con me nei viaggi in tram, nelle sale d'attesa o sulle panchine;

- "The 100-Year-Old Man Who Climbed Out the Window and Disappeared", di Jonas Jonasson, nella versione inglese tradotta da Rod Bradbury - ce l'ho in versione .epub, perciò ultimamente l'ho un po' snobbato.

...ma la versione cartacea non ha bisogno di ricarica.


E voi, che libri vi porterete nel nuovo anno?


giovedì 28 novembre 2013

Maugham e l'arte

Re di cuori - mio
A mio parere, ciò che vi è di più interessante nell'arte è la personalità dell'artista, e quanto più questa è singolare, tanto più sono pronto a perdonare alle sue opere mille imperfezioni. Velázquez è, immagino, un pittore più grande di El Greco, ma vi è in lui una certa stabilità di toni che finisce con l'intiepidire la nostra ammirazione, mentre invece il cretese, sensuale e tragico, ci presenta il mistero della sua anima in un perenne e mistico sacrificio. L'artista, pittore, poeta o musicista che sia, con le sue opere soddisfa il nostro senso estetico, legato alla sensualità primitiva, ma ci fa anche dono di se stesso. E il segreto della sua anima ci affascina a volte quanto un romanzo poliziesco. È un enigma per il quale non vi è soluzione. 
[...] 
Non condivido l'opinione di certi critici presuntuosi i quali negano al profano ogni competenza in materia artistica, e gli  concedono solo il diritto di firmare grossi assegni per comprare quadri. Pretendere che l'arte riveli i suoi misteri solo agli iniziati è semplicemente grottesco: l'arte è la manifestazione di un'emozione, e il linguaggio emotivo può essere compreso da chiunque. Però ammetto che un critico, privo di una vera competenza tecnica, non può essere in grado di emettere un giudizio di qualche peso: e la mia ignoranza in fatto di pittura è estrema.
 [...] 
 La facoltà di creare miti è innata nella natura umana, che concentra avidamente il suo interesse sui particolari curiosi o sorprendenti della vita di chi si distingue dalla massa dei contemporanei. Nascono così talune leggende cui ci si attiene con fede fanatica, poiché un desiderio di sogno romantico ci induce ad evadere continuamente dalla banalità della vita di ogni giorno. Di solito questi episodi leggendari diventano per l'eroe fortunato un sicuro passaporto per l'immortalità. Un ironico filosofo può sorridere del fatto che la fama di Walter Raleigh sia affidata più al suo gesto di stendere il mantello ai piedi della regina Elisabetta che non alle sue imprese in terre lontane.  

Somerset Maugham, La luna e sei soldi, traduzione di Elisa Morpurgo

Per me Somerset Maugham è una di quelle letture che si affrontano - e gustano - con molta, molta lentezza. Ho riportato questi brani perché interessanti, ma quello centrale soprattutto perché risponde bene a un vecchio discorso tra me e L. (avvalorando la mia posizione!). Siete d'accordo con (il personaggio di) Maugham? Secondo voi, chi può giudicare l'arte?

giovedì 21 novembre 2013

L'ultima sigaretta, un racconto

Il giorno che diventammo umani


Il 26 settembre 2009, intorno all’una e un quarto della notte, mentre fuori un cielo pieno di nuvole scure si chiudeva intorno a Padova, lui, disteso sul letto matrimoniale in stile futon, accanto al sonno profondo di sua moglie, fu scosso da un attacco improvviso e violentissimo di tosse...

Inizia così questo racconto, che potete leggere integralmente qui. Si intitola "L'ultima sigaretta", è stato scritto da Paolo Zardi e fa parte della raccolta "Il giorno che diventammo umani" (Neo Edizioni).  

Ah! La copertina, che secondo me è bellissima, è opera di Toni Alfano. Sul suo sito la trovate in versioni dai toni un po' più inquietanti. 

mercoledì 6 novembre 2013

Confini incerti, un brano

Il periodo della detenzione fu uno dei più divertenti della sua vita. Non dovette affrontare una prigionia lunga e severa in una fortezza inaccessibile, come Silvio Pellico, ma rimase nella piccola galera di Cakovec servito dai secondini, pochi giorni prima suoi subalterni.
Inoltre era in ottima compagnia, giacché la stragrande maggioranza degli intellettuali e buona parte della nobiltà illuminata erano esuli o prigionieri. I carcerieri, poveri diavoli, assumevano un aspetto truce solo durante l'ispezione del direttore, ovviamente austriaco. Per il resto erano più che disponibili a chiudere un occhio e dietro compenso anche tutti e due, per la mancata osservanza delle regole. E le regole, di fatto - se possiamo dar credito ai racconti tramandati dai figli del signor Dusan - si trasgredivano ogni giorno. 
I bei tempi andati! Non c'era bisogno di permessi complicati, né di certificati di buona condotta per facilitare i rapporti familiari, almeno non nel caso di questi piccoli rivoluzionari da operetta. L'amministrazione già allora risparmiava sul vitto degli arrestati e tollerava, anzi promuoveva, l'iniziativa delle consorti di integrare la mensa piuttosto parca del carcere. 
Le donne, a quei tempi, avevano poca dimestichezza con la politica. E le mogli, perlomeno all'inizio, avevano vissuto le condanne dei mariti, dei figli e dei padri con una certa vergogna. Forse alcune di esse sentivano un vago orgoglio per il ruolo attribuito loro dalla storia, ma la grande maggioranza provava disagio e la sera, quando si presentavano con un panierino sotto al braccio, si nascondevano sotto ampi mantelli e cappucci. Non alzavano lo sguardo, non parlavano tra loro. Consegnavano velocemente i viveri ai parenti nel parlatorio e dopo qualche parola di commiato, ciascuna tornava mesta a casa per provvedere ai bisogni della famiglia.
Dopo poche settimane di detenzione, però, i mariti notarono con piacevole stupore che le pietanze diventavano più ricercate, più fantasiose. Non fu l'amore coniugale e nemmeno l'amor patrio a spingere le pie donne a faticare oltre misura per preparare piatti sempre più complessi, ma l'unico motore capace di stimolare le femmine di tutti i tempi: la competizione. Era come se fosse crollata una diga. Niente le poteva più fermare. Dal paniere uscivano le posate d'argento, i piatti di porcellana del servizio della festa, i tovaglioli di batista finemente ricamati. Non bastava più loro consegnare il paniere al coniuge, le signore assistevano alle cene, osservando non tanto l'amato affamato, ma i piatti portati dalle altre. 

Tratto da Confini incerti, di Agi Berta




Confini incerti è un libro bellissimo, di cui tempo fa aveva già parlato Andrea Rényi qui. Il brano che ho riportato mi ha fatta sorridere, ma non è un libro divertente; piuttosto è interessante, doloroso, appassionante e coinvolgente.

Se amate la storia, i racconti familiari o l'Ungheria - o se amate anche solo leggere, ve lo consiglio caldamente.
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