lunedì 29 ottobre 2012

Acquario


Il vestito bianco le sta troppo stretto, è troppo corto. E quei tacchi sono troppo alti, la punta delle scarpe troppo lunga, sgualcita. Cammina come se avesse scricchiolanti dolori alle caviglie, la schiena curva. L'apparenza di un oggetto ingombrante che respira e che in virtù di questo ha la facoltà di tentare di nascondersi. Ha tutto ciò che in questo luogo non si dovrebbe portare, scomodità e paura.

Dall'esterno sembra una macelleria, ma invece di corpi nudi d'animale squartati e appesi, vi sono quadri di sangue che invitano ad entrare, macabri e informi. I pavimenti sono puliti, li ho lustrati io stesso. Controllo sempre che all'entrata le persone abbiano scarpe pulite e asciutte e per quanto mi si sia già intimato di smettere, continuo furtivamente a compiere questo piccolo rito: li guardo sorridendo ampiamente, poi - torvo - chiedo loro scherzosamente se han le suole pulite, ché dentro è uno specchio e tale deve rimanere. Ridono, la prendono per una battuta, ma per stare a questa sorta di gioco quasi mi mostrano la loro innocenza alzando di poco le suole e - per non rischiare eventuali sorprese, controllano furtivamente poco dopo.

La seguo con lo sguardo, segue la lunga fila che dall'entrata si sparpaglia nelle varie stanze ed entra in quella che puzza di pesce. La Marina, si chiama. Finemente arredata in blu, luci soffuse, pesci di cartapesta appesi al soffitto al cui interno sono state poste tante piccole lampadine che, filtrando luce dalle branchie ben intagliate, creano effetti luminosi diversi e lineari sulle pareti. Ondeggiano, spesso toccati per pura curiosità dal pubblico (effetto voluto dagli organizzatori, che li han posti alla giusta distanza per essere raggiunti da un braccio teso), creando con le stesse luci l'atmosfera che si può ipotizzare sotto la superficie del mare. Ci sono divani a forma di coda di sirena, corridoi tappezzati d'alghe calpestabili e poltrone a conchiglia. Chi vi entra si disperde facilmente, è uno spazio enorme e spesso nauseante, a mio avviso. I fidanzatini si tengono sempre per mano, avanzano prendendosi in giro boccheggiando allegri, gonfiando le guance, strabuzzando gli occhi. È svilente, quello che possono fare, umanizzando ogni altra forma animale. Del resto a tutti insegnano, fin da piccoli, ad imitare per apprendere. L'imitazione poi prende la mano e comincia ad essere utilizzata anche per gli scopi più tragici, come divertire. 

Lei si è tolta le scarpe all'entrata, evitando così di farsi seguire da una scia di ticchettii salmastri. L'ho persa di vista in fretta, tra le tante teste. Continuo a sorridere, a guardare di soppiatto chi entra, a controllare le scarpe. Mi passa quasi di mente quando la vedo tornare, gli occhi a bulbo e i capelli sconvolti da chissà quale marea. È troppo bruna, troppo tornita, troppo storta sulle ginocchia aguzze. Deve aver perso una delle due scarpe, ne ha solo più una in mano, che intravedo a distanza vagamente umida, gocciolante forse. Deve aver raggiunto come minimo l'acquario. Si guarda intorno appoggiandosi ad una parete, si china guardando fisso alla sua destra e poggia la scarpa in un angolo, e mentre si rialza si ravviva i capelli, cercando di guadagnare un'aria disinvolta. Incrocia il mio sguardo, che distolgo. 

Quando mi rigiro, però, è scomparsa.


venerdì 26 ottobre 2012

Raccolta firme

In questi giorni, quando ho un po' di tempo, partecipo a una raccolta firme.
Stamattina, al mercato, ha incominciato a piovere di colpo e noi abbiamo dovuto abbandonare il tavolino e cercare riparo nel mercato del pesce. Non avevamo una superficie su cui appoggiarci, ma abbiamo comunque continuato a fermare i passanti. Una signora, gentilissima, si è avvicinata: "Firmo, firmo tutto!"
"Grazie. L'unico problema è che non abbiamo il tavolino. Dovrebbe firmare appoggiando i fogli al muro"
"Signorì, e che problema c'è? Sa quante volte ci ho fatto l'amore appoggiata al muro? Ci son pure rimasta incinta!"



giovedì 25 ottobre 2012

Dalla vetta del mondo

Dalla vetta del mondo, o comunque da un punto molto, molto alto nel cielo, rispetto a quello a cui normalmente si è avvezzi. 

Alle volte ho come l’impressione non ci sia un senso, in questa gabbia di vetro che gentilmente mi tiene sospeso lì dove i gabbiani si mantengono immobili, figurine ritagliate nel cielo. Le finestre sono finte, non è visibile l’orizzonte e non riesco, davvero non riesco, a non pensare al fatto che non sono nato, io, perché i miei piedi arrivassero quassù. 

A dirla tutta, non sono nato per molte cose e forse è tutto uno strano gioco che non capisco, che son talmente stanco da non riuscire neppure lontanamente a comprendere. Sono talmente stanco da arrivare ad odiare la strana abitudine per la quale finisco sempre a pormi interrogativi sul senso delle cose, come se per forza dovessero averne uno, come se tutto ne avesse dovuto avere per nascere. A priori. Li posso immaginare, gli schizzi dei progetti per un fiore: “troppo rosso? Troppo pendulo? Gambo troppo lungo? Troppo corto? Così non va, così non va... Sicché bisogna rifare tutto, tutto daccapo!”.

Prima è arrivata Kerin, qui nel mio ufficio. Non ha bussato, ma neppure ha fatto qualsiasi altro genere di rumore. Mi sono accorto di lei per un cambiamento nei riflessi di luce nella stanza o per un impercettibile moto d’aria che si è fatto spazio. Non saprei. Fatto sta che me la sono ritrovata lì, gonfia e abbondante come sa esserlo solo una persona che non ha più la pazienza di rigirare ancora un poco, sulla lingua, le proprie parole; è quasi esplosa, poi, gridando: “Volevo dirtelo, sei tra i primi. Io e Ben abbiamo deciso di avere un bambino”.

Non so quale demone del cielo possa aver guidato le mie espressioni, da quel punto in poi, ma so per certo che non ricordo d’aver notato in lei alcun atteggiamento che potesse rivelare che avesse inteso quanto il suo dire mi avesse, in una qualche misura, stordito. Forse erano solo una manciata i minuti che intercorsero da quel momento a quello successivo che ho ben chiaro in testa: le 15.33. I numeri, quei numeri. Quei numeri li ho guardati con certo sguardo obliquo, perché parevano parlare: “Quindi ci trentatré” che, per scarto, si trasformava in “Quindi ci tentate”. 

Sì, “quindi ci tentate, tu e Ben. Bene. Ben e.” Insomma, ammattivo. Non erano lei e Ben, non era quel bambino in crescita dentro un futuro ancora incompiuto, era la premeditazione, quello che sta tra la scelta e il cielo – l’inaspettato, l’inconcluso – ciò che stava già, lo sentivo, iniziando a perseguitarmi. 

Foto: Tom Ryaboi/Wenn.com


martedì 23 ottobre 2012

Un palindromo


Il posto è buio, illuminato solo da qualche tenue luce blu che proviene dal palco. 
Lei rimane lì, appoggiata al muro, un bicchiere in mano da cui raramente coglie qualche sorso per passare il tempo riflettendo sulla differenza tra i plurali di Osso, lo sguardo perso verso un punto generalmente appropriato.
Non c’è musica, non c’è luce, non c’è niente. Solo quelle quattro lettere in croce che, rigirate su sé stesse, tornano ad essere propria immagine riflessa. Osso. E poi quell’anomalia della lingua: Ossi, Ossa.
La infastidisce terribilmente, troppe esse, poco attrito, poche ragioni.
Così si gira verso il tipo che ha accanto.

“La mia testa non funziona più”, gli ha spiegato. “Non riesco più a focalizzare. C’è..”

“Come?”, le ha fatto lui, scuotendo la testa di un soffio.

“Dicevo..”, ha alzato la voce, “C’è questa parola che..”

“Non ti sento!”

“OSSO!”, ha gridato. Meglio partire dal fulcro della questione, si è detta.

“POSSO COSA?”

È in quel momento che se ne è accorta. Si muoveva a tempo, lui si muoveva a tempo. C’era musica, c’era luce, c’era il mondo lì, attorno. Gente. Persone. Tutti pieni di braccia, bracci, dita, diti, ossa, ossi.  Ballavano. Tutti. Muovevano tutte quelle cose ed era tutto così: scomposto, aggressivo. 
Gli ha passato il bicchiere e si è diretta verso l’uscita, facendosi largo tra i corpi. Lui le ha urlato dietro qualcosa di poco carino, dato fondo al drink e buttato il bicchiere a terra.

Ha dimenticato la giacca, tornando a casa infreddolita. Si è preparata un tè che ha lasciato lì a raffreddare per la mattina dopo. Poi ha preso un libro, l’ha sfogliato brevemente e si è accigliata un istante, sussurrando meccanicamente:
Ossi se presi separatamente; ossa come insieme dell’ossatura umana.
Poi se ne è andata a dormire.

domenica 21 ottobre 2012

Treni notturni

Fino a qualche mese fa, quando ancora si poteva, viaggiavo spesso prendendo il treno notturno, quello su cui potevi prenotare una cuccetta in uno scompartimento a sei posti con una manciata d'euro. Si dormiva poco, era scomodo, a volte la luce non si accendeva, altre non si spegneva, e spesso nelle fermate intermedie si sentiva un vago odore di bruciato per via dei freni, non più quelli di una volta.

Eppure in quei viaggi scomodi c'era una gran dose di poesia, tra le chiacchiere la mattina presto con persone sconosciute, i sorrisi incerti e solidali di chi condivide la sciagura di un ritardo imbarazzante, l'insolito silenzio del treno assopito alle 3.30 del mattino. Erano viaggi lunghi, sfiancanti, economici e umani.

A volte nello scompartimento non entrava nessuno e a me piaceva star lì seduta con la luce spenta ad ascoltare il treno, a guardare scorrere i miei pensieri riflessi sul vetro del finestrino, paralleli al paesaggio.
  
Arrivavo a Foggia che il sole non era ancora sorto, dovevo aspettare un po' prima della coincidenza e l'alba era sempre bellissima.

Stazione di Foggia, 10 novembre 2011, 6.30 del mattino circa

sabato 20 ottobre 2012

Turin by night - Cibi che cambiano il mondo


Piazza Carignano è una delle piazze di Torino che preferisco, soprattutto la sera. Un paio di anni fa andavo a lezione di russo non lontano da lì e partivo sempre in anticipo per potermi sedere una mezz’oretta nella luce filtrata dei lampioni ad ascoltare un violinista che tutte le sere si sistemava all’angolo con via Principe Amedeo.

Ieri ne ho approfittato per farci un salto e vi ho trovato una mostra fotografica. Si intitola “Cibi che cambiano il mondo” e sarà proposta al pubblico fino al 29 ottobre. Allestita da Slow Food, la mostra si propone di descrivere il legame che unisce cibo e territorio presentando,  attraverso le immagini, delle esperienze e degli esempi positivi di modelli di sviluppo possibili.

Questa è la foto che mi ha colpito di più:

"Il caffè cambia con il territorio, l'altitudine, il clima, proprio come un vino, ma poi arriva ai consumatori in forma anonima. Quel che conta sul mercato è la marca, mentre non si sa nulla sull'origine, sui produttori, sulla tecnica di lavorazione. Per conoscere meglio ciò che sta dietro la nostra tazzina, vi accompagniamo dove il caffè è nato, in Etiopia. In questo angolo di Africa si produce e consuma caffè da millenni, molto prima che le rotte coloniali portassero la coltivazione in America Latina e Asia. Nelle foreste montane dell'Etiopia il caffè cresce spontaneamente, all'ombra di piante che lo riparano dai raggi del sole tropicale".


Qui invece c'è il video che presenta tutte le foto esposte:



lunedì 15 ottobre 2012

Un libro che vorrei leggere


"Quando iniziai ad annotare i ricordi di mio padre, domandavo se una particolare famiglia fosse slovacca o ungherese, e un giorno rispose: 'Non saprei dire. Sai, non avevamo l’abitudine di definirci in quel modo'. È un paradosso, dopo quarant’anni di comunismo e venti anni di globalizzazione, il fatto che ancora non siamo tornati  a com’erano le cose prima della guerra, quando le persone non si guardavano l’un l’altra principalmente come membri di un gruppo etnico".

Pavol Rankov


La frase è tratta da questa intervista all'autore. Il libro di cui si parla, Stalo sa prvého septembra (alebo inokedy), ovvero It Happened on September the First (or whenever), ha vinto il Premio letterario dell'Unione europea nel 2009 ed è attualmente introvabile (c'è comunque David Vaughan che sta lavorando alla traduzione in lingua inglese!).

sabato 13 ottobre 2012

Buongiorno Napoli

Volevo pubblicare le foto che ho scattato passando di sfuggita per Napoli, ma mentre le guardavo mi sono resa conto che questa, in particolare, bastava per tutte.

Ero ancora ignara del fatto che il mio volo non sarebbe mai partito e che sarei stata spettatrice di teatrini verbali del tipo: "La vostra compagnia sta andando a pezzi e i vostri aerei sono ridicoli e decrepiti", ma mi ero comunque alzata alle 5, ero emotivamente e fisicamente stanca per giorni e giorni di lavoro ininterrotto e la mia cervicale era particolarmente polemica...

Questo spettacolo invece mi ha fatta sorridere. Buongiorno Napoli.


venerdì 12 ottobre 2012

Ricaricare in aeroporto

La batteria del tuo cellulare, del tuo iPod o della tua console è a secco? All'aeroporto di Capodichino, Napoli, hanno trovato la soluzione (e io avevo tempo da perdere, visto che il mio aereo tecnicamente non è mai partito...).
















lunedì 1 ottobre 2012

In attesa del bus

A Torino siamo sensibili all'attesa. Perché non trasformare il tempo perso ad attendere che arrivi il bus in un momento di svago?



Qui bisogna trovare l'uscita dal labirinto percorrendone i sentieri con le dita... 
 ...questo è il classico gioco delle differenze (che mi lascia sempre un po' frustrata, non riesco mai a trovare l'ottava differenza prima dell'arrivo del bus)...
...e questo è il mio preferito: la rivistazione "solo mani" del Twister!

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