Un pomeriggio, a Granada, abbiamo incontrato John. Non l'abbiamo incontrato una volta sola, in realtà: la mia amica lavorava a due passi dalla piazzetta dove lui si trovava e così l'abbiamo incrociato circa sei volte nello stesso pomeriggio, fermandoci sempre a vedere come proseguiva il suo disegno.
John è un artista inglese che ogni anno parte alla volta della Spagna. Vive alla giornata con quel che guadagna disegnando per strada, viaggia, e a volte ottiene qualche ingaggio per dei lavori su commissione da qualche parte nel mondo.
Qui si vede la piazza che stava disegnando
Ci ha raccontato che un paio di anni fa voleva andare dalla Spagna fino in Russia muovendosi a piedi, ma che in Italia ha poi desistito. Ovunque andasse i poliziotti gli davano fastidio e minacciavano di multarlo. Per cosa, poi? Io disegnavo soltanto! Mica è illegale!
Spera tanto di riuscire a trovare qualcuno disposto a pagarlo per dipingere, perché fare questi schizzi gli piace e gli dà di cui vivere, ma amerebbe di più tornare ai pennelli.
Il lavoro finito costava 40 euro. Non avevo tanto da spendere, ma sarebbe stato un bel ricordo. Gli abbiamo chiesto perché non disegnasse anche qualcosa di dimensioni più piccole, magari in formato cartolina, ma non gli avrebbe dato altrattanta soddisfazione, ci ha spiegato. Come dargli torto?
Nel frattempo, sperando di ritrovarlo in qualche altra città, ho cominciato a seguire il suo blog.
Quando si visita il Palacio de Generalife si ha l'impressione di entrare nel labirinto della Regina di Cuori di Alice nel paese delle meraviglie.
Sarà stata l'ora, il giorno o il freddo, ma ho trovato pochissimi turisti e un grandissimo silenzio.
Ogni tanto mi sedevo da qualche parte a leggere "Tales of The Alhambra", il libro che Washington Irving scrisse negli anni '30 del XIX secolo quando viaggiò da Madrid a Granada. Quella che riporta è chiaramente una Spagna ben diversa da quella di oggi, ed è davvero piacevole farsi trasportare dalle sue descrizioni.
La mia foto preferita
Sto proseguendo la lettura in questi giorni e avrei davvero voglia di trovarmi ancora in quei giardini e in quelle stanze, per seguire con gli occhi tutte le sue descrizioni e immaginarmi le storie che riporta di chi vi abitava in quel periodo.
Quando si arriva all'ingresso dell'Alhambra bisogna essere puntualissimi e mettersi in coda. Io sono arrivata esattamente due minuti prima rispetto all'ora indicata sul mio biglietto, ma mi hanno fatto comunque aspettare. Mi hanno consigliato di non sedermi, altrimenti ci sarebbero stati problemi con la coda. Due minuti dopo, all'ora stabilita, eravamo quattro in tutto.
Una scolaresca francese sullo sfondo!
Quei pochi turisti che ho incontrato li ho incrociati quasi tutti per le strade della città nei giorni successivi...
A Granada c'è una mostra che tutti possono visitare passeggiando semplicemente per la città e senza pagare il biglietto. Perché d'un tratto, alla fine della Gran Via, inoltrandosi nelle stradine del quartiere di Realejo, ci si imbatte nelle opere di Raul Ruiz, anche noto come "El niño de las pinturas".
Lascio qualche foto che ho scattato in un suggestivo venerdì pomeriggio a zonzo, ma per i curiosi c'è il sito ufficiale.
Io devo ringraziare la mia amica, sempre informata su tutto, altrimenti uno spettacolo così me lo sarei perso!
Stasera ero in un negozio a curiosare - di quelli piccoli, stretti e gremiti di gente. Già carica di pacchi e pacchettini, nonostante la lentezza disarmante con cui mi muovevo non sono riuscita ad evitare di urtare una tazza che, come suol fare qualsiasi tazza in circostanze analoghe, è rovinata con tutto il suo peso a terra, rompendosi. Non mi sono chinata a raccoglierla, perché per fortuna mi sono resa conto che, con quattro sacchetti in una mano e una borsa a tracolla dall'altra parte, se mi fossi chinata ne avrei spinte giù altre quattro come minimo. Sono invece andata subito ad avvisare una ragazza che stava riordinando un altro scaffale.
"Ho rotto una tazza, là dietro".
"Ah, ma non ti preoccupare".
"Lo faccio presente io in cassa?", ho domandato.
"No, no, non ce n'è bisogno. Grazie".
"Mi spiace molto".
Dieci minuti dopo, mentre ero in fila alla cassa, ho visto arrivare quella stessa ragazza con i cocci in mano. "Cos'è successo?", le ha chiesto la proprietaria. "Il solito, qualcuno ha rotto una tazza e non ha detto niente".
Dovrebbe essere illegale tornare da una vacanza e sentirsi così stanchi, e tristi. Ma quando scopri che il tuo commercialista ha sbagliato mestiere e che tu hai pagato piu di quanto avresti dovuto (e che non ti tornerà indietro niente), che anche quest'anno sì, le tue cose te le sei pagate, ma non avrai di nuovo modo di andare a vivere da sola, e nel frattempo il tuo computer si è rotto, mettendoti di fronte a un'ulteriore spesa inaspettata, più altre ed eventuali, non ti viene proprio da fare altro. Piuttosto, incominci a domandarti se non sia davvero il caso di cambiare completamente rotta. Perché se è vero che l'universo ti lancia dei messaggi, quelli che mi stanno arrivando sembrano oltremodo chiari e particolarmente perentori.
Questo pomeriggio sono uscita con un'amica. Siamo andate
malauguratamente in un centro commerciale che, visto il giorno di festa e le
temperature, era un brulichio di persone che facevano di tutto, dall'acquistare
qualcosa al guardare le vetrine, dal parlare al seguire con occhi apprensivi
bambini che riuscivano appena a fare due passi sulle gambine incerte. Noi
abbiamo chiacchierato, con un tono di voce abbastanza alto da riuscire a
contrastare il brusio, cercato un bar per un caffè, fatto due passi.
Al ritorno l'ho riaccompagnata e sotto casa sua mi ha detto di
avermi portato un pensiero. In
realtà, mi ha spiegato, ce
l'ho da quando sono tornata dall'Ucraina, ma poi mi sono dimenticata di
dartelo. È solo un pensiero.
Mi ha portato una cartolina della città in cui si trovava e un
piccolo magnete quadrato su cui è raffigurata un'immagine di una statua che, in
quella stessa città, è stata eretta a simbolo della liberazione
dall'occupazione delle forze tedesche durante la seconda guerra mondiale. Un
pensiero.
Mentre tornavo a casa ho ricevuto un messaggio: Noi andiamo a mangiare due bocconi in un
locale, ti unisci?
Non so cosa fare. Non sono molto
dell'umore.
Meglio, una ragione in più per venire con noi.
Perché no? Così sono tornata a casa, ho poggiato due cose e sono
di nuovo uscita. Ho chiesto che non mi venissero a prendere, volevo farmi due
passi al buio, da sola, e con un po' di freddo addosso. Volevo un po' d'aria.
No, sei già qui? Ci hai colti di sorpresa,
volevamo accoglierti col botto!, mi hanno detto non appena sono arrivata.
Ho sorriso e mi sono seduta. Ho riso, chiacchierato,
scherzato. Sono tornata a casa contenta, ho attaccato il magnete ad una mensola
e, mentre sistemavo la cartolina tra tante altre, mi sono tornate in mente
quelle parole: Solo un pensiero.
Solo uno, due, tre, quattro – ho iniziato a contare. E mi sono
resa conto che quel solo pensiero si moltiplicava negli anni, si moltiplicava per ogni
scaffale pieno di cartoline e di libri regalati, per ogni scatola piena di
lettere e parole, per ogni ti unisci a
noi? che mi è stato rivolto. E che tutti quei pensieri insieme compongono
ognuno un pezzo diverso della mia vita ma, come si suol dire, l’insieme è diverso dalla somma delle parti.
Ed io mi sento profondamente grata.
La settimana scorsa sono andata a una conferenza a dir poco strepitosa sulla traduzione giuridica. Non solo era la prima volta che partecipavo a un evento sulla traduzione, ma l'argomento chiave era un documento su cui l'anno scorso ho lavorato cinque mesi ininterrotti (no, non staccavo manco il sabato e la domenica, e la mattina di Natale revisionavo). Non so come potrei descrivere la mia emozione, pertanto preferisco focalizzarmi sul luogo dell'evento, ovvero il nuovo Campus Luigi Einaudi che, da quanto ho capito, è stato ultimato quest'anno.
Ecco, io mi ricordavo la Palazzina Einaudi:
Da notare Superga sullo sfondo
La mattina della conferenza sono andata a colpo sicuro (del resto in quelle aule ci ho lasciato il cuore), ma il signore al banco informazioni mi ha gentilmente detto che sarei dovuta andare in fondo al giardino a destra, prosegui su Lungo Dora Siena e trovi l'ingresso sulla destra.
Seguite le sue indicazioni, mi sono ritrovata di fronte a qualcosa di totalmente... inaspettato.
Ieri siamo andati a festeggiare il compleanno di mia madre al ristorante arabo presso il centro culturale italo-arabo di Torino. Non ricordo di aver mai mangiato meglio.
Si scendono due piani di scale, intravedendo solo di sfuggita degli ambienti bellissimi, poi si arriva qui, in questa sala.
Vista dei tabagisti in cortile
Il centro culturale si chiama Dar Al-Hikma, che significa "Sede della Sapienza", mentre il ristorante al suo interno è l'al-Andalus, nome che si riferisce alla "parte della Penisola iberica e della Settimania al sud della Gallia" (ci tengo a precisare che la fonte è Wikipedia).
Insomma, che si mangia?
Non si ordina nulla, il menù è fisso e prevede: sfiziosi antipastini (tra cui falafel alle fave e all'uovo, crostini con una salsa alle melanzane e altri con un formaggio particolare mischiato al tonno, delizioso hummus con mandorle, cuscus), un altro bel piatto di cuscus con verdure e carne e, dulcis in fundo, carne d'agnello con prugne.
- Ma alla fine i canestrelli li hai finiti?
- Per chi mi hai preso? Ovvio che li ho finiti! E sono ancora viva.
Sì, perché i canestrelli presuppongono una certa dose di coraggio. Dico così perché succede sempre, senza eccezione, che io, con questi biscotti (e generalmente con tutti i dolci ricoperti da zucchero a velo), finisca per rischiare il soffocamento. È matematico.
Da un mio recente sondaggio, non è un fatto comune. Infatti non tutti aspirano prima di addentare. Io sì, ed è per questo che lo zucchero a velo mi frega e che coi canestrelli devo prestare la massima attenzione. In tutti i casi, nonostante il rischio, ne vale sempre la pena.
Qualche giorno fa ho partecipato a questo concorso qui.
Il tema era "La festa" e bisognava "rivestire" l'eroe scelto ispirandosi a uno dei passaggi proposti. Io ho scelto questo:
Emma si comperò un inginocchiatoi gotico; spese in un mese quattordici franchi in limoni per pulirsi le unghie; scrisse a Rouen per avere un vestito in casimiro azzurro; scelse da Lheureux la più bella sciarpa ch'egli aveva; se l'annodava alla vita, sopra la vestaglia, e, così vestita, rimaneva distesa su un divano con un libro in mano e le persiane chiuse.
Spesso cambiava di pettinatura; s'acconciava ora alla cinese, ora con riccioli sciolti, ora con le trecce; si fece una riga da un lato e avvolse i capelli al disotto, come un uomo.
da Madame
Bovary, di Gustave Flaubert. Traduzione di Giuseppe Achille.
E così ho proseguito...
Erano come prove generali ad un grande
spettacolo di cui lei era l'unica e impareggiabile protagonista e, come tale,
sentiva l'obbligo morale di tendere alla perfezione, così da poter offrire ai
propri spettatori l'opportunità di sentirsi di nuovo mortali nella loro
mediocrità. Occasione del suo debutto ufficiale in queste vesti sarebbe stata
la festa che si sarebbe tenuta di lì ad un mese presso la casa del sindaco,
uomo abbiente per professione ma amante dell'opulenza per inclinazione.
All'evento avrebbero partecipato tutti quelli che godevano di una qualche
importanza a livello sociale, per lo meno a quanto sembrava suggerire l'invito,
scritto con grafia impeccabile e ricercata eleganza, e l'insistenza con la
quale Françoise, la sua amica, continuava ad affermare che "sì, deve
esserci stato sicuramente un qualche disguido all'ufficio postale, se a me
l'invito non è ancora arrivato", proseguendo poi per filo e per segno ad
elencare, quasi in ordine cronologico, tutte le persone nella sua cerchia che
già potevano iniziare con diletto a prepararsi all'occasione.
Rigirando tra le dita quel passepartout
tanto prezioso, Emma seguitava a far parlare Françoise con studiata
indifferenza, quella che si riserva alla musica d’anticamera. La sciarpa turchese potrebbe andare? Magari
sopra al vestito nero di quel sarto bravissimo, che mi calza come un guanto. Ad
un osservatore attento non sarebbero sfuggiti tutti quei colori e quei capi che
sembravano sfilare di fronte ai suoi occhi assenti, ma Françoise non era né
osservatrice, né men che meno attenta.
"Dunque, ho concluso il discorso
intimando alla cugina di Jean-David che se l'indomani non avesse chiesto a sua
zia una risposta, avrebbe potuto benissimo dimenticarsi i tè del mercoledì.
Velatamente, s'intende - una signora non dovrebbe mai dar prova di una simile
malagrazia. Ne convieni?", seguitava Françoise, mentre Emma, annuendo,
passava mentalmente in rassegna i preziosi.
Indosserò quelli a goccia, eleganti ma seducenti, che coi capelli
raccolti in uno chignon e il ciondolo che mi ha regalato Maman si abbinano come
uno stelo alla foglia.
Continuò così
per un’altra ora, e per un giorno ancora, poi due, fino a sommarne altri tre ed
arrivare ad una settimana, un mese e così via. Il giorno della festa arrivò in un’umida
sera d’agosto ed Emma sembrava davvero risplendere di luce propria.
Morbidamente avvolta in un vestito nero dalle maniche ampie e la scollatura non
troppo generosa, con orecchini a goccia e, una volta toltasi la leggera sciarpa
turchese, lo sterno nudo (Niente ciondolo:
la pelle nuda si presta meglio ad accogliere gli sguardi), fece il
suo ingresso nell’ampio salone. Si voltarono tutti, ma altrettanto in fretta
ripresero le proprie conversazioni. Perché Emma aveva dimenticato l’unico
orpello di cui, in circostanze come questa, una donna che volesse far
rispettare il proprio buon nome e apparir perbene non poteva fare a meno: il
marito.