domenica 31 marzo 2013

Paris, senza fine.



Vista dall'Arc de Triomphe, febbraio 2011
Usava il cielo come metro delle proprie emozioni, ruotando la forma degli scarti tra le nuvole per poter creare quello spazio che sentiva mancargli per stipare emozioni e parole. Quel lattiginoso chiarore che avvolgeva sempre la città gli rimaneva impigliato tra le dita come colla, mentre lasciava vagare lo sguardo dalla finestra della piccola stanza in cui alloggiava. Era una stanza fredda, con una poltrona scarna priva di imbottitura in un angolo, un vecchio armadio in legno scricchiolante, un piccolo letto e uno specchio. Riflettervisi era come saltarvi dentro, come aveva fatto Alice, solo che non c’era nessun Lewis e nessun Carroll a disegnare i sentieri che quel viaggio comportava, era un foglio bianco, lattiginoso come il cielo, e a volte era meglio evitare direttamente il confronto, così da non ritrovarsi necessariamente ad affrontare una parte di sé così estranea come il proprio viso. Quel che mi è familiare, si diceva, sono i pensieri. Le mani. O il cielo. La finestra aveva l’esatto contorno di ciò che era pronto ad accettare dentro di sé.

Ho risalito i gradini di Mont Martre con le mani in tasca e l’idea di voltarmi a guardare il panorama solo giunta in cima, ma non sono riuscita. È come se il completare i miei propositi potesse in qualche modo urtarmi. Così, quando mancavano due gradini alle porte della basilica, mi son voltata: sulla città un’immensa ombra bianca di foschia mattutina.
Le sette del mattino. Nessun turista a scattare foto a ripetizione, a chiedere al vicino che fine abbia fatto la Tour Eiffel, a scartare un panino. Io e la foschia, le porte chiuse della Basilica del Sacro cuore alle mie spalle.
Mi lacrimano gli occhi, mi siedo.
Siamo a novembre inoltrato e son passati solo due mesi da quando sono arrivata in questa città. I suoi palazzi alti e ordinati, perfetti e puliti, mi han dato presto l’impressione di un posto meno accogliente di quanto immaginassi.
Nonostante questo ho trovato lavoro piuttosto in fretta: faccio la cameriera in un piccolo bar in Rue Mouffetard, non troppo lontano dalla Moschea. La clientela è composta per lo più da turisti, di abituali ve n’è ben pochi.
Fuori dal lavoro non ho conosciuto nessuno. Mi sento un automa: guardo le persone chiedendomi mille cose sul loro conto, ma le mie conversazioni si limitano al prendere gli ordini. A volte mi sorprendo a chiedermi come facciano gli altri a muoversi con così tanta naturalezza, a sorridere, a crederci, a conversare e interessarsi. Ricordo che un tempo la mia vita era simile alla loro, mi veniva automatico, non era un interrogativo da pormi. Forse sono più umana, adesso?
Il cielo si fa più chiaro e limpido. Mi alzo con calma, ridiscendo le strade costeggiando le vigne della collina, dietro al museo di Montmartre.
Incrocio due ragazzi, hanno le mani in tasca e una lunga sciarpa che lega i loro colli, li unisce in un vincolo caldo fatto di stoffa. Li annoda, li strozza.

Come vi era finito, lì, non avrebbe saputo dirlo. A volte la vita ti porta esattamente dove devi essere nel momento esatto in cui devi trovartici, la persona giusta al momento giusto, sì? No, figuriamoci se era il suo caso. Se lo era, non se n’era manco accorto. Un problema logistico o emozionale, va a capire. 
  
Un vecchio racconto, mai finito. Mi interrompo sempre un attimo prima dell'incontro. 

Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...