Io voglio, il suo mantra. Il complemento oggetto ad
accompagnare la frase non era necessario, bastava il desiderio insito in quelle
due. Due. Parole. Io voglio. Se lo
pregustava sulla lingua cercando con gli occhi di corredarle di uno slancio
emozionale forte verso un qualsiasi oggetto degno d’attenzione, che fosse
parimenti colorato e costoso. Da invidiare, da poter mostrare con innocente
indifferenza.
La soddisfazione era doppia: sua e del genitore ad accompagnarlo. Due facce
piene e tronfie, quella di reggenti in terra: l’una, quella di Angelo, mimava
con doverosa costanza una vittoria già prevista ma non scontata; l’altra,
quella del padre Arturo o di sua moglie, il ritratto mobile e sfumato di una
bonaria soddisfazione ad avere un bambino tanto “esigente. Ma sai, è così
intelligente.. si annoia subito di tutto, povero caro. Poi i giochi di oggi son
talmente complicati da essere sicuramente educativi”.
Plastica, pixel, la luce iridescente del monitor a sorridere su quella pelle
giovane e fresca ancora in crescita e di fronte a quegli occhi così rotondi.
Pomeriggi pigri di Roma, il sole che sale e sciupa la città e le sue polveri
nell’aria afosa, Angelo e i suoi amici di scuola a lasciar sagome sul tappeto
verde, quello in salotto, di fronte al videogioco. Angelo che ascolta musica in
internet, che si diverte, che impara, “impara più a casa che a scuola, per
carità.. cosa non c’è su internet. Ti ricordi, di quando facevamo le ricerche
in biblioteca? Sulle enciclopedie? Ha ha, non ci posso pensare, oggi basta così
poco, a questi bambini”.
Arturo legge ogni giorno il giornale, è un’abitudine che ha incollata addosso
fin da bambino, da quando ha imparato a leggere. La mattina Angelo si trova a
faccia a faccia con grandi fette di pane imburrate e queste grandi, enormi
pagine di giornale. Tra un morso e l’altro le guarda, con apprensione e occhi
sgranati, come se da un momento all’altro potessero crollargli addosso: lo
annienterebbero, pensa. Poi trattiene il respiro, le pagine scricchiolano,
ricompare suo padre. Gli sorride. Per una frazione di secondo si chiede chi
sia, ma non fa in tempo ad accorgersi della cosa. “Sei già pronto per andare?
Muoviti, che se no faccio tardi”.
Durezza, irreprensibilità. Arturo ha lo sguardo severo, i pensieri chiari e non
ama le frivolezze. “Cos’era quella foto?”,
si azzarda il piccolo a chiedere, facendo cenno col mento al quotidiano.
In copertina troneggia un’immagine sobria di un telo bianco dalla forma
confusa. Angelo non riesce a capirne il senso.
“Un omicidio”.
“Cos’è un omicidio?”
“È quando una persona viene uccisa”.
“È divertente?”
“No, Angelo. Quando una persona viene uccisa muore. Significa che non c’è più.”
Il bambino resta in silenzio, cerca di capire. Immagina un mondo diverso, al di
là di quel lenzuolo. Un mondo colorato e costoso, senza scuola, senza sole
troppo caldo, vento troppo forte. Immagina un passaggio segreto.
“E dove si trova una persona che uccide?”
Arturo lo guarda. Così stupito dalla domanda da non trovare una risposta. E per
questo, non per la domanda in sé, rimane turbato. “Muoviti, che altrimenti
faccio tardi”.
Angelo annuisce, non insiste. Continua a fantasticare, ha qualcosa di nuovo cui
pensare. Corre a prendere la cartella e segue felice e docile il padre per
farsi portare a scuola. Ha un segreto, ha scoperto una cosa nuova, un nuovo
desiderio tutto per sé e si sente grande. Qualcosa di potentissimo, di cui
nessun amico gli ha mai parlato e di cui non parlerà per primo, ha troppo
valore. “Voglio trovare una persona che uccide”.
Angelo era un bel bambino. Nel suo visetto acerbo e paffuto
si intravedevano già dei lineamenti adulti e consapevoli. A otto anni il padre
Arturo lo guardava di nascosto con curiosità. Lo vedeva crescere come non se lo
aspettava: benché nei suoi tratti ci fossero i propri (labbra sottili e dritte,
zigomi ben delineati), si trovava compromesso di tanto in tanto da un colpo
d’occhio, un ammiccamento sottile che al bambino sfuggivano quando non si
sentiva osservato. “Hai visto come cresce? Mi sembra ogni giorno nuovo”,
commentava la sera, prima di andare a dormire, la voce ferma per non tradire
una certa irrequietezza. “Si fa grande”, mormorava Carla, mezza assonnata,
“soprattutto a questa età, i bambini cambiano continuamente. Ti ricordi tua
nipote, Anna, alla sua età? È normale”, sorrideva indulgente, “in men che non
si dica sarà alto quanto te”. Arturo fissava il soffitto, non rispondeva. Era
suo figlio, ma quel bambino sembrava sfuggirgli. Aveva qualcosa, nei suoi modi,
nel suo muoversi, che sembrava suggerirgli una recita. Quel bambino era un
bambino perché sapeva di essere un
bambino e come tale si comportava. Faceva i capricci quando doveva, piangeva
quando voleva, rideva quando giocava. Faceva
il bambino, finché lo si osservava. Quando però lo si guardava da una porta
socchiusa, di nascosto, aveva un non so che di straordinario, di inquietante,
di progettuale. Sebbene la sua indole
non lo rendesse incline all’eccessiva attenzione verso le persone, sintomo
della tendenza di molti al sentimentalismo e all’attaccamento affettivo, quel
bambino – il suo bambino – lo
spingeva ad eccessi voyeuristici frequenti.
Mentre gli occhi di Angelo diventavano, con l’adolescenza, sempre più rotondi e
folli – nutriti dal sogno e dai grandi progetti che con palpebre sgranate
cercava di intravedere nel futuro, quelli di Arturo si appesantivano, caricati
e impregnati delle preoccupazioni irrazionali con cui ormai amava trastullarsi
ogni giorno. La sua incapacità di
comunicare, non solo con la moglie, ma con chiunque avesse attorno – per
insicurezza o profonda debolezza, a piacere - lo metteva al riparo da qualsiasi
rassicurazione, da qualsiasi confronto o possibile oasi di verbale tranquillità
che, altrimenti, si sarebbe potuto concedere grazie alla beata noncuranza di
cui sarebbe stato complice nella condivisione dei suoi pensieri.
Vittima della sua educazione (ché ogni gesto sembrava essere sintomo e malattia
insieme), schiavo di fantasie e preoccupazioni, il giorno che realizzò
l’imminente partenza del ragazzo per un viaggio studio di sei mesi all’estero si gettò in fretta, furia e compostezza, dal balcone con vista panoramica che
li aveva convinti a scegliere quel determinato palazzo.
Roma era bellissima, quella sera: il crepuscolo tingeva le ombre di rosso,
scivolava lungo gli alti palazzi e andava a morire più lentamente del solito.
Anche Arturo non si spense subito, si fece accompagnare dal sole. E in quella
penombra che ne offuscava la vista, in quel rantolo che non si trasformava in
parole, in quel dolore che gli intimava l’abbandono del corpo, vide il viso di
suo figlio farsi vicino: “dove l’hai trovata una persona che uccide?”
|
Opera di Piero Marai |